Dal 9
maggio al 22 novembre Venezia
ospita la 56° Mostra internazionale di Arte contemporanea.
Tra i
Paesi ospitati c'è anche l'Ungheria con “Identità sostenibili”
(padiglioneGiardini 22), mostra interattiva del quarantottenne
artista ungherese Cseke Szilárd.
Un'occasione imperdibile.
German
Kinga ha curato la mostra; commissario del padiglione è Balatoni
Monika con i commissari aggiunti Puskás
István,
Fodor Sándor
e Karády
Anna.
Un'occasione
imperdibile, preceduta da due altri eventi filo-ungheresi a Venezia.
Il 5 maggio (h. 18, Teatro ai Frari) c'è la presentazione del libro della
linguista e magiarista Cinzia
Franchi. Il libro,
L'arancia ungherese. La
letteratura in Ungheria negli anni Cinquanta (Lithos,
2014), affronta il periodo più buio dell'Ungheria post-bellica,
recuperando quella letteratura che darà frutti nel magnifico e
terribile '56. In quegli anni si afferma il modello stalinista in
Ungheria, in versione nazionale: un agrume clonato, “la nuova
arancia ungherese. Un po' gialla, un po' aspra, ma è la nostra”.
Il titolo del libro evoca il frutto protagonista del film di Bancsó
Péter, A tanú
(Il
testimone), ambientato negli anni Cinquanta.
Il 6 maggio (h. 18 e 19.45, Cinema Giorgione), viene proiettato il film di Mauro
Caputo,
L'orologio di
Monaco,
già presentato a Udine (v. post 24 marzo '15). Sarà presente anche
lo scrittore italo-ungherese Giorgio
Pressburger:
il film-documentario è tratto da una sua raccolta di racconti.
Ecco come il critico Paolo Mereghetti descrive il film.
“L’orologio
di Monaco di Mauro Caputo conduce lo spettatore a condividere con
intelligenza e partecipazione il mondo di ricordi e di riflessioni di
Giorgio Pressburger, un mondo che si snoda attraverso mezza Europa e
che incrocia personaggi celebri (da Heine a Mendelssohn, da Marx a
Husserl al regista Emeric Pressburger, tutti legati ai suoi antenati)
e persone comuni, momenti drammatici (Pressburger fuggì
dall’Ungheria nel 1956, la sua famiglia subì le persecuzioni
naziste) e pause di riflessione. Ma questo viaggio nel tempo e nella
memoria non ha mai l’arroganza o l’orgoglio di chi vuole
trasformarlo in vanto ma piuttosto la dolcezza e la delicatezza di
chi sa che «i miti ci visitano fino a che, a un certo punto, come
sono nati, svaniscono».
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