martedì 18 febbraio 2014

Intervista al Cavaliere della Repubblica Melinda Tarr.



L’ungherese Melinda Margit Tamás-Tarr, naturalizzata italiana, è un nome noto su questo blog. Dirige da 17 anni l’Osservatorio Letterario di Ferrara, una pionieristica rivista (cartacea ma presente anche online) che ha contribuito a creare un ponte culturale tra italiani e ungheresi, anche avvalendosi di validi collaboratori dei due Paesi.
Ed è un’attenta lettrice di queste pagine online.
È una gran bella notizia sapere che la nostra” Melinda professoressa, giornalista, traduttrice e scrittrice – è diventata Cavaliere della Repubblica, onorificenza conferitagli dal Presidente della Repubblica con decreto del 27 dicembre 2013. Si tratta dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana (OMRI, diviso in sei gradi), il più alto in Italia, istituito 63 anni fa per “ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell’economia...”.
È il più prestigioso, e meritato, riconoscimento tra quelli fin qui ottenuti.
Già nel 1993 la Tarr riceve il 1° premio per la critica letteraria dalla Società Dante Alighieri, istituzione che diffonde la cultura italiana nel mondo.
Poi nel 1998 la sua rivista letteraria fu ritenuta “una delle migliori idee imprenditoriali” per iniziativa del Corriere della Sera e della BPM.
Nel 2001 fu segnalata dalla rubrica radiofonica di Rai 1 “Est Ovest” per la sua attività divulgativa, in particolare sulla letteratura ungherese, e per gli scambi culturali con la Biblioteca Nazionale Széchenyi (Budapest) e la Biblioteca Elettronica Ungherese (MEK).
Nello stesso anno l’International Biographical Centre (Cambridge) inserisce la Tarr tra i 2000 maggiori pensatori del XXI secolo

Melinda Tarr nasce nel 1953 a Dombóvár, nella Provincia di Tolna (Transdanubio meridionale). Comincia a lavorare già negli anni liceali, al tribunale di Veszprém. Dopo la  laurea in magistero (1978), insegna lingua, letteratura e storia nelle scuole medie della stessa città, dove collabora anche al giornale locale (Napló).
Dal 1983 è in Italia, a Ferrara, per dedicarsi a vari studi (giuridici, letterari, pianistici, informatici) e svolge sia l’attività di traduttrice/interprete e sia, dal 1989, quella di giornalista e scrittrice. Nel periodo 1990-94 si mette alla prova anche come soprano nell’Accademia Corale Veneziani di Ferrara.
Nel 1997 fonda e dirige l’Osservatorio Letterario, dando vita anche all’O.L.F.A. (Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove), che pubblica libri in italiano e/o in ungherese (finora una settantina), come l’antologia Le voci magiare (OLFA, 2001). Per qualche anno promuove anche il premio letterario internazionale Janus Pannonius”.

Ecco una breve intervista che mi ha cortesemente rilasciato.

Oltre alla gran gioia di ricevere il prestigioso titolo di cavaliere della repubblica, quale significato ha per Lei questo riconoscimento?
Un alto riconoscimento statale nella mia Patria d’adozione in cui, per varie circostanze, mi sono sentita e mi sento soltanto apolide. Da trent’anni vivo in Italia. In questo Paese delle raccomandazioni, piena di veleni, intrighi e invidie,  mi sono sentita trascurata ed emarginata come ungherese, nonostante la cittadinanza italiana. Il mio operato letterario-editoriale e culturale finora non era stato riconosciuto dalle istituzioni ufficiali. Negli anni di esistenza dell’Osservatorio Letterario, i media tacevano e ne ignoravano i comunicati di stampa, oppure divulgavano notizie insignificanti. 
Questo alto riconoscimento statale mi ricompensa un po’ della scarsa considerazione della mia molteplice attività professionale da parte di cerchie accademiche chiuse in se stesse, quasi fossi un’intrusa che ne minaccia il prestigio.
Tra mille difficoltà e con scarsi mezzi economici, ho costruito un duraturo ponte culturale tra Ungheria e Italia, divulgando opere letterarie e saggistica in lingua originale oppure tradotte in italiano o in ungherese. Dalle pagine del periodico bilingue Osservatorio Letterario, di cui ho curato personalmente redazione ed edizione, ho affrontato temi di cultura generale dei due Paesi e ho gettato uno sguardo anche sulle letterature e le culture di altri paesi.
Questa onorificenza, oltre che un prestigioso premio per la mia attività professionale, è anche un bel regalo per il mio 60° compleanno e il 30° anniversario della mia permanenza in Italia.

Chi pensa di ringraziare per essere giunta a questo traguardo?
Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato in questa avventura editoriale dalla fondazione, con la loro collaborazione (selezione elaborati, revisioni bozze) e i loro consigli (in particolare, nei primi anni, sull’uso della lingua italiana); rapporti interpersonali che hanno reso meno pesante e più gratificante il mio impegno professionale (oltre al lavoro editoriale, la redazione di articoli, saggi, studi, narrativa, lirica, e le traduzioni dall’ungherese di poesia e prosa).

Quali stimoli riceve la Sua attività alla direzione dell’ Osservatorio Letterario di Ferrara, una vera e propria missione per approfondire la conoscenza tra ungheresi e italiani?
Viene rafforzata la motivazione che è stata finora il mio perpetuo stimolo: la gioia della creatività; l’amore per il bello, la letteratura, le arti; la possibilità di trasmettere la bellezza tramite le opere degli autori selezionati; il desiderio di condividere e divulgare perle di cultura, in particolare letterarie. Un’attività di trasmissione di conoscenze che, nel mio piccolo, mira a superare i reciproci pregiudizi e ad arricchire lo spirito con le opere di autori talentuosi.

Cosa potrebbero fare le istituzioni pubbliche per consolidare e sviluppare l’amicizia italo-ungherese?
Il ruolo pubblico nella cultura dovrebbe essere quello del “mecenate”, che sostiene economicamente (borse di studio, premi culturali, sponsorizzazioni, ma anche semplificazione fiscale) e con la divulgazione sia l’industria culturale e creativa  e sia gli artisti in Italia, di qualunque nazionalità siano. Infine, forse la cosa più importante, serve l’intervento pubblico nell’educazione: in particolare, non vanno chiusi i dipartimenti universitari di ungarologia, e va incentivata la presenza di asili e scuole dove si insegna la lingua ungherese.

lunedì 17 febbraio 2014

Pálinka e paprika all’EXPO?



E il vin fumoso, a me vie più interdetto
che 'l tòsco, costì a inviti si tracanna,
e sacrilegio è non ber molto e schietto.
Tutti li cibi sono con pepe e canna
di amomo e d'altri aròmati, che tutti
come nocivi il medico mi danna.

Così si giustificava Ludovico Ariosto (1474-1533), uno dei più grandi letterati dell’umanesimo italiano, riferendosi all’Ungheria in una Satira indirizzata al fratello. Gli avrebbero fatto male, tra l’altro, i forti vini tracannati d’un fiato ad ogni brindisi, secondo l’uso locale, e i cibi pieni di pepe e altre spezie, proibiti dal medico. In realtà, si trattava di pretesti per evitare di seguire a Eger nel 1517 il cardinale Ippolito d’Este, con cui era in contrasto dopo la pubblicazione dell’Orlando Furioso (e, probabilmente, anche per restare vicino alla sua amante, Alessandra Benucci, vedova da due anni).
A distanza di mezzo millennio, queste “pecche” della cucina ungherese sono diventati due simboli dell’alimentazione magiara: la pálinka e la paprika.

La pálinka è un brandy che assomiglia alla nostra grappa. È un distillato di frutta: prugna, albicocca, ciliegia, pera, quelle più utilizzate (raramente è un acquavite). Ce ne sono di vari prezzi e di svariati tipi; cambia anche nome secondo la lavorazione: kisüsti (doppia fermentazione); érlet (invecchiata in botti 6-12 mesi); ó (invecchiata 1-2 anni); ágyas (invecchiata almeno 3 mesi con la frutta). Ce n’è anche una come la nostrana acquavite: törköly, la più rinomata delle quali proviene dalle vinacce del più famoso vino ungherese, il tokaj.
Durante il regime socialista, veniva prodotta anche clandestinamente. Oggi la produzione è agevolata dallo Stato e la produzione è notevolmente aumentata (1,26 milioni di litri nel 2010).
È il liquore nazionale ungherese, ad alta gradazione (50% vol). La pálinka si beve a temperatura ambiente, in piccoli bicchierini e... prima dei pasti (anche a colazione!). Nel brindisi, si fanno tintinnare i bicchieri guardandosi negli occhi e si augura: egészségedre! (alla tua salute!).

La paprika, più precisamente pirospaprika (“peperone rosso”) è una polvere rossa ricavata da peperoni (in ungh. paprika significa peperone). Insaporisce numerosi piatti e dà loro un colore rossastro. Ce ne sono di vari tipi, dolci o piccanti, delicati o forti; è l’alimento più ricco di carotenoidi e ha effetti benefici sulla salute (stimola la digestione, aiuta la circolazione, è tonica e antisettica). Il peperone è stato valorizzato anche dallo scienziato ungherese Szent-Györgyi de Nagyrápolt Albert (1893-1986), premio Nobel nel 1938, che scoprì la vitamina C.
Nella cucina europea, la pàprica è stata introdotta proprio dagli ungheresi, che l’adottarono dai turchi: paprika deriva dal serbo papar, che risale al latino piper (“pepe”).
È il condimento caratteristico della cucina ungherese, ma non è un prodotto locale antico, essendo stato introdotto solo sul finire del XVIII secolo (prima di allora si usava il pepe, bors). Infine è ingrediente indispensabile in uno dei piatti ungheresi più famosi: il gulyás leves (“zuppa del mandriano”), più conosciuta col nome tedesco, gulasch.

È sperabile che questi due alimenti abbiano il meritato rilievo nel padiglione ungherese dell’EXPO 2015 a Milano. Nella cerimonia pubblica di adesione dell’Ungheria all’Expo (13 giugno 2013), è stato sottolineato che la presenza ungherese si caratterizzerà sui seguenti temi: acqua, acque minerali e termali, produzioni agricole (come in Italia, non c’è grano OGM). Sul padiglione campeggerà una foto di Budapest, sopra una parafrasi di una citazione dalla Divina Commedia (ungh. Isteni Színjáték): “koronája ama földnek, amelyet a Duna szel át”. Dante si riferisce all’Ungheria “terra attraversata dal Danubio” e in particolare a Carlo Martello, incoronato re d’Ungheria nel 1292, dopo la morte dello zio Lázló IV.
Ecco il verso completo (seguito dalla traduzione in ungherese), dal canto 8 del Paradiso:

Fulgíemi già in fronte la corona
di quella terra che 'l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.

S a világ látta, hogy homlokomon van
ama föld koronája, hol az osztrák
partoktól elvált Duna vize csobban.


venerdì 14 febbraio 2014

Con Radnóti contro il razzismo.


Giovedì sera a Milano (Palazzina Liberty, largo Marinai d’Italia) si terrà l’iniziativa “Poesia contro il razzismo”, promossa da Comune di Milano, Consolato ungherese e Pen Club Ungherese.
Si tratta  di una “rivolta poetica” contro il razzismo: una risposta al recente rogo - da parte di fanatici antisemiti - delle poesie del poeta ungherese Radnóti Miklós (1909-1944).
Radnóti, ebreo, fu perseguitato (non poté esercitare l’insegnamento e venne rinchiuso in campi di concentramento) e fucilato a 35 anni dai nazisti. Una targa lo ricorda presso la casa dove nacque, in Kádár utca 8 a Budapest.
Dopo l’intervento delle autorità, l’attore Franco Sangermano darà voce agli ultimi versi del poeta ungherese, mentre i poeti della “carovana dei versi (poesia in azione)” faranno ascoltare i loro versi (Luigi Cannillo, Maurizio Cucchi, Tomaso Kemeny, Amos Mattio).

Ecco una poesi di Radnóti, Hetedik ecloga (Settima ecloga), seguita dalla traduzione di Edith Bruck.


Rongyosan és kopaszon, horkolva repülnek a foglyok,
Szerbia vak tetejéről búvó otthoni tájra.
Búvó otthoni táj! Ó, megvan-e még az az otthon?
Bomba sem érte talán? s van, mint amikor bevonultunk?
És aki jobbra nyöszörg, aki balra hever, hazatér-e?
Mondd
, van-e ott haza még, ahol értik e hexametert is?




Alszik a tábor, látod-e drága, suhognak az álmok,
horkan a felriadó, megfordul a szűk helyen és már
ujra elalszik s fénylik az arca. Csak én ülök ébren,
féligszítt cigarettát érzek a számban a csókod
íze helyett és nem jön az álom, az enyhetadó, mert
nem tudok én meghalni se, élni se nélküled immár.

Lager Heidenau, Žagubica fölött a hegyekben, 1944. július


Vedi, imbrunisce, e l’atroce barriera di quercia
col fregio di filo spinato sta così sospesa che nel buio si dilegua.
Lo sguardo va lento oltre la cornice del campo,
la mente, la mente soltanto conosce la tensione del filo.
Vedi, cara, qui è così che si libera l’immaginazione, il sogno,
il bel liberatore, scioglie i nostri corpi sfatti,
e allora il campo si avvia alla volta di casa.

A brandelli e calvi, russando, volano i prigionieri
dell’alto della cieca Serbia verso il paesaggio di casa che si cela.
Paesaggio di casa che si cela! Ma c’è ancora una casa? Una bomba
non l’avrà colpita? E’ come quando ci arruolammo? Lo stremato
compagno di destra, quello a sinistra vedranno mai una casa?
Dimmi, laggiù c’è una casa dove ancora qualcuno intende l’esametro?

Senza strumenti, riga dopo riga, tastando,
scrivo i miei versi nella penombra così come vivo, cieco
come un bruco che striscia le sue dieci dita sulla carta,
il quaderno, la torcia, tutto mi fu tolto dagli scherani del campo
non arriva più neanche la posta, solo la nebbia scende sulle nostre baracche.

Tra notizie allarmanti e cimici, qui nelle montagne convivono
il francese e il polacco, l’italiano chiassoso, l’ebreo assorto,
il serbo scismatico, febbricitanti e con i corpi piagati-,
nonostante tutto, vivono la stessa vita in attesa di una buona nuova,
una bella parola di donna, un destino libero e umano, una fine irraggiungibile,
aspettando il miracolo.

Sono disteso sul legno, un animale prigioniero, tra i parassiti,
tra un’onda e l’altra di pulci quando l’orda delle mosche s’è placata.
Vedi, è sera, un giorno di prigionia
e un giorno di vita in meno. Il campo dorme.
Sul paesaggio splende la luna e quella sua luce il filo
spinato è nuovamente teso, dalla finestra seguo sul muro
le ombre delle guardie armate tra le voci della notte.

Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano,
chi si sveglia di soprassalto si rigira nel suo stretto lembo,
e di nuovo sprofonda nel sonno con il volto che si illumina. Io solo
sono sveglio, seduto assaporo la cicca in bocca invece di un tuo bacio
e il sonno tarda a portarmi conforto, perché
ormai non posso più morire né vivere senza di te.

giovedì 13 febbraio 2014

Un maestro di storia dell’arte: Boskovits Miklós.



Non si limitava alle lezioni teoriche di storia dell’arte: chiedeva ai suoi studenti di produrre scientificamente schede descrittive delle opere d’arte, basate sull’osservazione diretta e l’analisi dei presupposti tecnici e stilistici. Questa è l’esperienza formativa, coinvolgente per gli occhi e per la mente, che il professor Boskovits Miklós (1932-2011) ha lasciato ai suoi studenti.
Quelli dell’Università Cattolica di Milano lo hanno ricordato, producendo un bel libro, Dipinti in Valpadana tra Medioevo e Rinascimento (a cura di Francesco Frangi, Scalpendi - 2013), con le schede di oltre venti dipinti di pittori del Nord Italia conservati nel Museo di Belle Arti di Budapest (Szépművészeti Múzeum, che ha collaborato al progetto tramite i suoi conservatori: Sallay Dóra, Tátrai Vilmos, Vécsey Axel e Dobos Zsuzsanna).

Boskovits Miklós rappresenta forse il più eminente storico dell’arte di origine ungherese, e viene considerato il massimo esperto di pittura medievale fiorentina (XI-XIV sec.).
Nasce a Budapest e da giovane manifesta due passioni: la canoa, che pratica sul suo Danubio, e l’arte, specie la pittura rinascimentale italiana. Si laurea in storia dell’arte alla ELTE ma, insofferente delle limitazioni ai suoi viaggi, nel 1968 fugge dall’Ungheria (le leggi dell’epoca non gli avrebbero consentito di rientrare) e chiede asilo politico all’Italia. Senza un quattrino, viene accolto e protetto da Carlo Volpe, e conosce l’altro grande storico dell’arte, Roberto Longhi.
Inizia la carriera universitaria nel ’77 a Cosenza, e poi alla Cattolica di Milano dall’80; la conclude a Firenze, insegnando dal ’95 storia dell’arte medievale, subentrando a Mina Gregori.
Schivo e instancabile, quando va in pensione non interrompe la sua opera, ma continua come volontario in una biblioteca d’arte.

Collabora alla realizzazione di vari cataloghi e mostre, anche all’estero (Berlino, Washington).
È autore di diversi saggi, tra cui la monografia su Botticelli. Suo è il primo studio organico sui mosaici del battistero di San Giovanni a Firenze (il più imponente ciclo musivo del Duecento in Toscana), che diventa parte del monumentale progetto del Corpus of fiorentine painting, concepito nel 1930 da Richard Offner. In una delle poche interviste rilasciate racconta che “Offner aveva finanziato un’eccezionale campagna fotografica per la realizzazione del progetto. Insegnava in America e non appena i corsi erano finiti metteva le fotografie in due enormi bauli, prendeva la nave e veniva a Firenze, dove lavorava al progetto. Riuscì a occuparsene fino al 1965, naturalmente senza arrivare a completarlo. Altri due libri li realizzò la sua collaboratrice Klara Steinweg, ma alla morte della studiosa il progetto si interruppe per qualche anno.” Lo riprese Mina Gregori, che lo affidò a Boskovits e nel 1984 fu pubblicato il primo volume.

É stato membro onorario di varie istituzioni di grande prestigio (tra cui la Fondazione Roberto Longhi e il Kunsthistorisches Institut di Firenze) e, dal 1998, membro esterno della Magyar Tudományos Akadémia di Budapest (Accademia Ungherese delle Scienze).

Infine, all’italo-ungherese Boskovits è stata dedicata la mostra Gli Autoritratti Ungheresi degli Uffizi (Firenze, autunno 2013), che documenta – tramite 23 autoritratti di artisti ungheresi – l’arte figurativa magiara dall’Ottocento ad oggi.

domenica 9 febbraio 2014

Bilancio anno culturale 2013.



A Veszprém con Paczolay Gyula
Un bilancio dell’Anno culturale italo-ungherese appena trascorso può essere considerato positivo. Il numero e il livello degli eventi culturali, nei due Paesi, è sembrato alto (v. post del 26 giugno ‘13), così come buona è apparsa la partecipazione del pubblico.
Ciò è ancor più rilevante se si considera che l’organizzazione di questa stagione culturale ha sofferto di inspiegabili assenze, come nel settore turistico dove non si registrano atti dell’ente italiano preposto (ENIT) o dell’Ufficio Turistico Ungherese.

Inoltre, gli eventi si sono svolti in un contesto internazionale non proprio favorevole. Ancora nel mondo, e in particolare in Europa, permane una congiuntura negativa.
Sul piano politico, l’Europa e le relazioni tra Stati non attraversano un periodo d’oro, anzi. In particolare, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2014, le opposizioni in Ungheria e anche l’UE ritengono che alcune modifiche della Costituzione magiara “siano un pericolo reale per la democrazia e lo stato di diritto”.
Sul piano economico, la crisi è continuata ne 2013: nel 2012 il Pil dell’Eurozona è stato negativo (-0,6%), in particolare – a parte il caso Grecia –  per l’Italia (-2,4%) e per l’Ungheria (-1,7%).
Si può dire che stiamo ancora imparando, tutti, a diventare europei restando italiani, ungheresi, ecc. Nel 2014, a cent’anni dalla Grande Guerra (che vide italiani e ungheresi su fronti opposti), l’Europa ha l’occasione di dimostrare a se stessa e al mondo che non è più tempo di conflitti distruttivi, ma di cooperazione: l’unica strada che appare in grado di assicurare un futuro.

Eppure le relazioni italo-ungheresi si sono confermate buone, a dimostrazione che, al di là dei rapporti tra Stati e dei problemi congiunturali, l’amicizia tra i popoli e tra le persone è duratura. Ciò grazie ad alcune istituzioni (tra le altre, il Consolato generale d’Ungheria a Milano, l’Accademia d’Ungheria di Roma, l’Istituto di Cultura Italiana a Budapest, l’Università la Sapienza di Roma, l’Università ELTE di Budapest, la Associazioni italo-ungheresi, ecc.), e grazie ai solidi legami che uniscono tanti ungheresi e tanti italiani.
Un piccolo esempio di ciò è avvenuto il 30 gennaio scorso a Veszprém. Sono stato accolto con grande cordialità nella biblioteca provinciale Eötvös Károly per l’incontro di presentazione del mio libro bilingue di proverbi ungheresi, segnalato anche dal quotidiano locale Napló. Oltre al paremiologo Paczolay Gyula, uno studioso di grande umanità, ho potuto incontrare giovani ungheresi attratti dalla lingua italiana, e credo che ci saranno altri appuntamenti italo-ungheresi.

Infine, una considerazione per i prossimi eventi e anni culturali. Sembra opportuno non limitarsi a eventi della cosiddetta cultura “alta” (Verdi, Liszt ecc.), ma considerare la cultura “quell’insieme complesso che comprende le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, le leggi, i costumi e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società” (Edward Taylor), insomma anche le espressioni culturali più popolari, così da coinvolgere un pubblico più vasto.

martedì 4 febbraio 2014

Addio a Jancsó, “sguardo di dio”.



Si è spento a 92 anni a Budapest uno dei maggiori cineasti ungheresi, Jancsó Miklós. È considerato l’emblema del “Nuovo cinema ungherese”, nato a seguito della repressione della rivoluzione ungherese del 1956 (“lo stalinismo, più che un errore, è un crimine” constatò Jancsó).
Era molto attratto dalla storia e poco dal montaggio: faceva largo uso del “piano sequenza”, ripresa cinematografica senza stacchi, forse ispirata dal paesaggio della steppa ungherese, la puszta. Il suo cinema (inizialmente documentaristico), contraddistinto da un pessimismo storico in parte stemperato nella produzione degli ultimi anni, ha continuato ad analizzare implacabilmente i rapporti tra individuo, potere e comunità.
Fu un “gigante del cinema mondiale “, secondo Kinoeye, anche se i suoi film spesso furono poco visti, in patria e all’estero, per problemi sia con la distribuzione che con la censura.
Come ricorda Silvana Silvestri (il manifesto, 2 febbraio), a Jancsó fu attribuito – dal regista polacco Andrzej Wajda – “lo sguardo di dio”, per la capacità di trasformare gli spettatori in spietate divinità che assistono con distacco alle vicende della storia.

Negli anni ’70, per molti giovani occidentali protagonisti della “contestazione”, le forme e i contenuti nuovi che provenivano dalla cinematografia dell’est offrivano uno sguardo nuovo sul mondo, anche se a volte criptico (dovevano superare la censura).
Ricordo la visione in un cinema d’essai nel ’76, proveniente dal festival di Cannes,  del film Vizi privati, pubbliche virtù (prodotto nel periodo “italiano” di Jancsó) che suscitò scandalo: venne sequestrato due volte, e la sceneggiatrice Giovanna Gagliardo condannata inizialmente per oscenità ma poi assolta.

La notorietà internazionale arriva negli anni ’60 con una trilogia: “I disperati di Sandór” (Szegénylegények), “L’armata a cavallo” (Csillagosok, katonák), “Silenzio e grido” (Csend és kiáltás). Nel 1990 al Festival del cinema di Venezia gli viene riconosciuto il Leone d’oro alla carriera.

Il regista ungherese e altri grandi registi dell’Est (Andrzej Wajda, Krisztof Zanussi, Ivan Passer ecc.), con la loro arte, riuscirono a scavalcare le barriere fisiche e ideologiche che dividevano l’Europa fino all’’89 e salutarono favorevolmente nel 2004 l’allargamento dell’Unione Europea.

- intervista del 2002 (in inglese)

lunedì 3 febbraio 2014

Proverbio/detto ungherese del mese (1010).




Minél több dolog változik, annál több dolog marad ugyanaz (quanto più le cose cambiano, tanto più rimangono le stesse). Questo proverbio, il cui significato è che i cambiamenti turbolenti non incidono sulla realtà in modo profondo e non fanno altro che rafforzare lo status quo, non ha un equivalente italiano. Ma pare che non sia proprio un proverbio, bensì un epigramma del critico francese Jean-Baptiste Alphonse Karr (1808-1890), editore del quotidiano parigino Le Figaro e del mensile Les Guêpes. Su quest’ultimo, nel 1849, fu pubblicata l’espressione: “plus ça change, plus c'est la même chose”, che passò come sentenza anche nell’uso anglosassone (“the more things change the more they stay the same”) e in altre parti del mondo.
Da eventi collettivi, tale “proverbio” è passato anche a indicare situazioni della vita in cui una persona si sforza di cambiare il mondo attorno a sé, ma senza risultato dato che non riesce neppure a cambiare se stessa. È questo il caso della serie tv americana Everwood (2° stagione).
La frase viene anche ripresa da un diffusissimo videogame sparatutto, Call of Duty (noto anche come Modern Warfare 2, MW2), per bocca del generale Shepherd.

Un’analogia ce l’ha il modo di dire italiano “Cambiare tutto per non cambiare niente”. Questo detto deriva dall’adattamento di una frase di un personaggio romanzesco. Si tratta di Tancredi, nipote del principe di Salina, che – di fronte all’arrivo dei garibaldini in Sicilia e al possibile cambio di regime – afferma: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Il Gattopardo è il romanzo da cui è tratto, scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) e pubblicato postumo nel 1958 (nel 1961 è stato tradotto anche in Ungheria, A párduc). Ne è stato tratto anche un film di successo, diretto da Luchino Visconti nel 1963. Da allora “gattopardismo” (sinonimo di “trasformismo”, in ungh. transzformizmus) si usa per etichettare quei comportamenti dei ceti dominanti che – in un nuovo contesto socio-politico – simulano un cambiamento per conservare i privilegi.
Mutatis mutandi, è il rischio che si corre ogni volta che si sperano/temono grandi cambiamenti, magari annunciati – come oggi in Italia – da uno scontro generazionale che si manifesta periodicamente (ricordo nei ribelli anni ’50-’60 del XX secolo il costume giovanile di additare gli adulti come “matusa”).