lunedì 22 settembre 2014

Verbi ungheresi più facili... o no?

“L’ungherese utilizza riccamente la categoria del verbo (ige)”, afferma il professor Paolo Driussi (Guida alla lingua ungherese, Franco Angeli, 2012).
Sottolinea, però, che i modi verbali ungheresi non hanno ampie corrispondenze con i modi italiani. Ad esempio: il condizionale ha diverse forme; l’imperativo è utilizzato anche come congiuntivo; esiste il participio futuro, che esprime un’azione futura necessaria (in italiano è assente).
Inoltre, in ungherese non esistono classi di verbi e coniugazioni in base all’infinito, come invece in italiano (-are, -ere, -ire).
Questo post e, soprattutto, la scheda scaricabile (La coniugazione dei verbi ungheresi / A magyar igék ragozása) – che contiene i suffissi personali dei verbi (igei személyragok) – sono un’introduzione al sistema verbale ungherese.

Il sistema verbale ungherese si basa sul tema o radice verbale (igető), forma base che coincide con la 3° persona singolare (3Sg) del presente indicativo nella coniugazione soggettiva (ad eccezione dei verbi terminanti in -ik, particella che scompare dalla radice).
La coniugazione verbale (igeragozás), distinta per persona (személy) e numero (szám), si realizza aggiungendo alla radice il suffisso (igerag) in base ai diversi modi e tempi.

Imparando i suffissi verbali di tre modi (indicativo, condizionale, imperativo) e due tempi (il presente e una sola forma di passato; il futuro si costruisce con l’infinito più un ausiliario), possiamo coniugare tutti i verbi regolari ungheresi. L’italiano invece è più complicato; ad esempio il modo indicativo ha ben otto tempi (anche se nella lingua parlata se ne utilizzano meno).
Questo è dunque un aspetto più semplice della lingua ungherese rispetto alla grammatica italiana.
Le buone notizie, per chi vuole studiare l’ungherese, finiscono qui.
Sia perché la lingua magiara presenta molti verbi irregolari (in questo, la lingua italiana non è da meno).
Sia soprattutto per le seguenti originalità:
-         esiste una doppia coniugazione, soggettiva (quando l’oggetto non è definito) e oggettiva (quando lo è);
-         si applica la regola dell’armonia vocalica anche ai suffissi personali dei verbi, che dunque cambiano la vocale – bassa (a, á, o, ó, u, ú) o alta (e, è, i, í, ö, ő, ü, ű, ma la i può essere anche bassa) – in conformità con quelle della radice verbale.

Pertanto, il verbo può indicare non solo la persona, il numero, il tempo e il modo, ma anche la presenza o l’assenza di un oggetto.
Ecco ad esempio una coniugazione soggettiva (o indefinita, poiché non è chiaro l’oggetto):
-         sto leggendo / olvasok
-         esaudisco un desiderio / teljesítek egy kívánságot
Ed ecco la forma oggettiva (l’oggetto è definito), con significato diverso:
-         lo sto leggendo / olvasom
-         esaudisco il desiderio / teljesítem a kívanságot.

Per i verbi regolari, tutti i suffissi utilizzati sono riassunti nelle tre tavole contenute nella scheda citata.
Per quelli irregolari, occorre impararli uno a uno, non avendo regole di costruzione, anche se si possono individuare alcune costanti nei tre gruppi in cui sono suddivisi tali verbi:
a)      i tre verbi jönni (venire), lenni (essere), menni (andare);
b)      i sei verbi terminanti in -nni: enni (mangiare), hinni (credere), inni (bere), tenni (mettere, fare), venni (prendere, comperare), vinni (portare);
c)      i pochi verbi terminanti in -udni/-üdni.

Ecco poi una particolarità. In ungherese non esiste il verbo avere (ma nel senso di possedere è possibile usare birtokolni). Per esprimerlo si utilizza una una circoscrizione simile al dativo latino, as es.:
-         Kati ha un fratello / Katinak van egy testvére (lett. “Kati-a c’è un fratello-suo”)

Poiché persona e numero del verbo sono facilmente riconoscibili, in ungherese i pronomi personali (személynévmások: én, te, ő, mi, ti, ők) spesso sono omessi; li si esplicita quando si pone enfasi sul soggetto.
Un accenno anche alla posizione del verbo nella frase (sulla cui costruzione ci sarà un prossimo post). Mentre nelle lingue neolatine la struttura della frase è del tipo SVO (soggetto-verbo-complemento), nelle lingue uralo-altaiche – cui appartiene la lingua ungherese – è invece quella del tipo SOV.
In realtà, “la struttura sintattica dell’ungheree è determinata dalla pragmatica della comunicazione” (Driussi cit.), anche perché la funzione dell’oggetto (il “caso” in ungherese, il “complemento” in italiano) è resa evidente dall’apposito suffisso. Quindi, in linea di massima l’ordine delle parole è libero e dipende dalla parola tonica (quella su cui cade l’enfasi), che va subito prima del verbo. Possiamo dunque trovare il verbo all’inzio della frase o nel mezzo, spesso anche alla fine. Naturalmente un’unità sintattica va tenuta in gruppo (es. articolo-aggettivo-sostantivo).

Ecco ora una curiosità: la lingua ungherese costruisce i verbi,  con immediatezza ed efficacia, anche a partire da sostantivi stranieri. Di seguito alcuni esempi:
-         navigare in internet / internetezni
-         mangiare una pizza / pizzázni
-         fare sport / sportolni
-         guardare la tv / tévézni
-         giocare a tennis / teniszezni.

Infine, da ricordare che nei vocabolari il verbo ungherese compare con la sua radice verbale (3Sg, eventualmente con suffisso –ik; es. tévézik), e non con l’infinito come in italiano.

Se cercate la corretta coniugazione di un verbo, il seguente sito vi aiuta con circa 700 verbi ungheresi:

Buona coniugazione!

lunedì 15 settembre 2014

BAIU fa 50!

 “Chi non trova un altro che lo lodi, fa bene a lodarsi da sé”. Non vorrei adottare questo antico proverbio, dato che ricevo diversi complimenti per questo blog. Ma ogni tanto, raggiunto un traguardo, lo segnalo con soddisfazione.

Questa volta si tratta del numero di Paesi (ungh. országok) che visualizzano BAIU (blog amicizia italo ungherese). Sono diventati 50, rappresentati nella mappa.
Rispetto agli elenchi precedenti (post del 14 maggio ‘14), si sono aggiunti: Bosnia, Brasile, Cile, Colombia, Croazia, Indonesia, Lituania, Norvegia, Uruguay.

In sedici mesi sono state raggiunte 12mila visualizzazioni, oltre il 60% in Italia. Seguono gli USA (10%), dov’è presente la maggiore emigrazione ungherese nel mondo (circa un milione e mezzo di persone). Al terzo posto l’Ungheria (8%), poi nell’ordine fino al decimo posto: Germania, Russia, Francia, Svizzera, Ucraina, Regno Unito e, nuova entrata, India.

La lingua ungherese e la cultura magiara sono uniche al mondo. Più vengono conosciute e più possono essere salvaguardate e valorizzate (naturalmente, ciò è auspicabile per ogni lingua e cultura del mondo).
Questo blog è una goccia, ma sok csepp kivájja a követ (molte goccie scavano il sasso).

PS: qualcuno mi suggerisce di esportare il blog su Facebook e Twitter. La libertà di pensiero e di parola possono espandersi con i social network, ma cum grano salis, cioè con discernimento. Non credo utile alla “divulgazione” né il gruppo chiuso (non includente), né la reazione immediata (non meditata).


martedì 9 settembre 2014

Scontato il libro di proverbi ungheresi.

Vorresti una copia del libro bilingue di proverbi ungheresi Affida il cavolo alla capra (vai alla pagina web dedicata)?

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Una buona occasione anche per i prossimi regali di Natale, no?

E ricordati che conoscere più lingue fa bene alla salute!






Se vuoi incontrarmi, la prossima presentazione del libro avverrà sabato 25 ottobre '14 (ore 11) nella Biblioteca comunale di Corbetta (MI).

lunedì 8 settembre 2014

Cos’è il “mal d’Ungheria”.

Partenza per la Puszta, Théodore Valerio (1853)
Esiste il “mal d'Ungheria” o, meglio, cos'è?
“Mal d'Hongrie”, malattia epigastrica contagiosa, così chiamata perché individuata nel 1566 in Ungheria tra le fila dell'esercito imperiale di Massimiliano II (intervenuto per opporsi all'invasione turca), ricorda l'Encyclopédie. 
No, non è questo che interessa.

L’espressione italiana ha un uso diverso, che richiama quella più nota di “mal d’Africa” (che ha una corrispondenza solo in francese: mal d’Afrique), ma non ha equivalenti in altre lingue. È simile alla saudade per il Brasile: una forma di malinconia, un sentimento simile alla nostalgia, ma non rivolta come questa al passato bensì vissuta al presente e proiettata nel futuro (il musicista brasiliano Gilberto Gil definsce ogni saudade come “la presenza dell’assenza”). Insomma, un’espressione letteralmente intraducibile.
In ungherese, “mal d’Ungheria” si potrebbe dire vágyát Magyarországra (desiderio d’Ungheria) ma è un’espressione rarissima: la utilizza il poeta Arany János (1817-1882), nel poema epico Az utolsó magyar (L’ultimo ungherese). E poi c’è la “nostalgia di casa” (honvágy), ma questa riguarda solo chi è lontano dal proprio paese.
Alle difficoltà di assegnargli un significato equivalente nelle diverse lingue, si somma quella di un
utilizzo in contesti – e con significati – diversi.

Dunque partiamo dall'uso più comune: espressione di nostalgia per l'Ungheria, che può prendere chi l'ha visitata. Derivante forse dall'attrazione per un esotismo di “casa nostra” (una lingua non indoeuropea nel cuore dell'Europa), o forse dall'ammirazione per l'orgoglioso senso di alterità magiaro. E, comunque, frutto di un arricchimento culturale e umano, come già sosteneva Fosco Tempesti nella premessa al libro da lui curato, Lirici ungheresi (Vallecchi, 1950). Tempesti ricordava anche come una quindicina di anni prima (quindi, intorno al 1935) “la letteratura ungherese richiamava l’interesse di gran parte del pubblico di lettori, sia in Italia come in altri paesi”, e sosteneva che la letteratura magiara “è certo tra le più ricche e più interessanti delle letterature minori”.
Ma già allora, come ancora oggi, ci sono turisti che inseguono in Ungheria solo i luoghi comuni del “divertimento” (a cominciare dalle facili avventure). Nelle sua guida Budapest (1931), il giornalista italo-ungherese Ignazio Balla sottolinea le due “specialità” celebri nel mondo che soprattutto interessano gli stranieri: “la famosa musica tzigana... e le belle donnine della capitale magiara”.

Un'altra interpretazione del mal d'Ungheria è quella di un viaggio nella memoria di una diaspora alla ricerca delle proprie radici. Lo testimoniano diversi libri.
Ricordo quello dell'italiana Anna Maria Háberman, Labirinto di carta: una ricostruzione delle vicissitudini dei propri familiari (v. post del 20 gennaio 2014), in particolare del padre ungherese, sfuggito nel 1933 alle persecuzioni antiebraiche.
Oppure l'ultimo della tedesca Zsuzsa Bánk, presentato così sulla Stampa: “La magia del nuoto per dimenticare il mal d'Ungheria” (Il nuotatore, Neri Pozza, 2014; traduzione di Riccardo Cravero), i cui genitori sono fuggiti dall'Ungheria nel 1956.

Il 1956, appunto, segnala un altro, anzi altri due modi opposti di utilizzare l'espressione “mal d’Ungheria”. Per alcuni, come Indro Montanelli – che seguì la rivolta ungherese da corrispondente del Corriere della Sera – significava vicinanza alla “sublime pazzia” degli studenti di Budapest, in antitesi alle realpolitik di destra e di sinistra. Per altri, era un’etichetta discriminatoria – il socialista Gaetano Arfé la defini “espressione ignobile” (Il Ponte, n. 2, 1960) – verso quei comunisti non allineati che non approvarono l’invasione sovietica che represse la rivolta (e che si allontanarono dal Pci).

Ancora prima, a metà degli anni ’30 dello scorso secolo, come ricorda il Tempesti, la letteratura e la drammaturgia magiara in Italia esercitava un forte fascino. Forse inspiegabile o forse derivante da una sorta di moda inaugurata dalla politica d’amicizia tra i due Paesi (il Patto del 1927 e la Convenzione culturale del 1935), cui diede impulso la rivista italo-ungherese Corvina. Fascino trasmigrato anche nella  settima arte espressa da Cinecittà. È di quell’epoca il “cinema dei telefoni bianchi”, definito poi anche “commedia all’ungherese”, poiché – pur essendo di produzione italiana – si ispirava ad autori teatrali ungheresi. Era anche un modo, per alcuni registi, di affrontare temi sociali nell’Italia fascista, senza incorrere nella censura del Minculpop, data l’ambientazione ungherese (o in paesi immaginari) dei film. Il critico Pietro Bianchi individua la malattia del “mal d’Ungheria” anche in film di Vittorio De Sica, come Maddalena zero in condotta (1940) o Teresa Venerdì (1941). Lo stesso Bianchi fa però notare che, se tale malattia c’era stata, ormai si era in convalescenza senza più l’intenzione “di andare ad appioppare ai nostri amici ungheresi le sciocchezze che si accettano come italiane” (cit. da L’occhio di vetro, ed. Il Formichiere, 1979). La più riuscita contaminazione italo-ungherese nel cinema è del regista austriaco Max Neufeld (che lasciò la Germania nazista per le sue origini ebree) nel film Mille lire al mese (1939), girato a Roma ma ambientato a Budapest.
Sulla “fortuna” della letteratura ungherese in Italia si può leggere in rete un articolo di Ilona Fried, Il Paese della Cuccagna, dove si ricordano i due ingredienti essenziali del romanzo e del teatro ungheresi tra le due guerre: divertimento e miseria, una depressione post-sconfitta – acutizzata dai problemi sociali – mescolata all’umorismo nero.

Ma forse è già nell'Ottocento che nasce il mal d'Ungheria.
Già nel XVIII secolo, a seguito del romanticismo, si afferma il tema estetico del voyage pittoresque.
Erede del Grand Tour settecentesco (mete la Grecia e, soprattutto, l’Italia), il viaggio esotico diventa la realizzazione del “desiderio d'Oriente” della nuova borghesia in ascesa (“orientalismo” nell'arte), conosciuto tramite le esposizioni universali, nonché altra faccia del colonialismo (Africa, Medio Oriente).
In questo panorama, i moti risorgimentali del 1848 e le gesta – ancor prima della poesia – di Petöfi Sándor fanno (ri)scoprire l'Ungheria agli altri europei. Tra gli altri, il pittore francese Théodore Valerio (1819-1879) rappresenta il patchwork etnografico del bacino carpatico in acquarelli e stampe antropologiche (tra cui i ritratti degli zingari, definiti i “Mohicani d'Europa”). Valerio pubblicherà anche il racconto dei suoi viaggi nelle terre danubiane (Essais ethnographiques sur les populations hongroises, 1858), pubblicato parzialmente in Italia su FMR (n. 88 del 1991) assieme agli affascinanti acquarelli sotto il titolo appunto di “Mal d’Ungheria”. Altro reportage noti sono quelli di Gabriel Von Pronay (Skizzen aus dem Volksleben in Hungarn, 1854) e di Victor Tissot (La Hongrie, de l’Adriatique au Danube, 1883).
Tornando al leggendario Petöfi (sulla sua morte, Carducci scrisse: “Sparì un bel Dio della Grecia”), è indubbio che la lotta per la libertà e l’indipendenza di italiani e ungheresi contro l’assolutismo asburgico ha favorito stretti rapporti politici e culturali in cui sono maturati sentimenti di profonda amicizia e un desiderio d'incontro tra i due popoli che peridicamente si rinnova.

Questi, in estrema sintesi, gli antefatti di una “magiarofilia” presente in Italia (e non solo).Ci sono italiani che – pensando agli ungheresi – condividono la definizione di “kis nép, nagy lélek” (piccolo popolo, grande anima). Tale espressione fu utilizzata dallo scrittore ungherese Németh László (1901-1975) nel dramma in versi Négy próféta (Quattro apostoli): una rilettura del Vecchio Testamento dove il popolo ebraico crede nella possibilità di crescere nonostante le avversità. Una metafora della condizione dei magiari in varie fasi storiche, che viene così dipinta dal Balla nella guida già citata: “Sempre martire il popolo ungherese, ti dico, sempre sofferente per una dominazione straniera durata troppo a lungo. Sono secoli che la magnifica Reggia è deserta. Non c’è un re: c’è a regnare, la Sacra Corona di Santo Stefano dalla croce piegata e piagata, simbolo tuttavia di insopprimibile grandezza”.
Penso agli italiani che ho conosciuto dopo aver aperto questo blog. Come Gigliola Spadoni, la quale per decenni si è appassionata alla cultura magiara, raccogliendo anche centinaia di libri che poi ha donato al Consolato ungherese di Bologna (e ora mi ha donato le copie di due introvabili libri di Fosco Tempesti). Penso ad Anna Rossi, infaticabile organizzatrice dell’Associazione italo-ungherese del Triveneto. Penso alla stessa Anna Maria Háberman, che ha raccolto un’estesa documentazione sulle sue radici ungheresi e, dopo i primi due libri, ne sta preparando un altro.
E penso agli ungheresi naturalizzati italiani, come Melinda Tarr, che a Ferrara dirige la rivista bilingue Osservatorio Letterario. Oppure all’ungherese Borsányi Katinka, che vive in Italia da una dozzina d’anni e scrive poesie in italiano, anche per avvicinare le civiltà dei due popoli.
E penso ad altri italiani, che ho incontrato durante la presentazione del mio libro bilingue o che mi hanno scritto al blog, che vorrebbero studiare la lingua ungherese. Ho già dedicato vari post all’argomento. In aggiunta segnalo un sito web nato nel dicembre 2013, “Magyar Nyelv – Impariamo insieme l’ungherese”, che offre ben 28 lezioni di ungherese. Non conosco l’autore, ma ho l’impressione che anche lui, dopo un’estate nell’”incantevole Budapest” (nel 2012), soffra ora di mal d’Ungheria.

-          annate della“Nuova Corvina”
-          annate “Corvina”

lunedì 1 settembre 2014

Proverbio/detto ungherese del mese (1017).

Azt várod, hogy a sült galamb a szádba repüljön? Letteralmente: aspetti che ti voli in bocca un piccione arrosto?
Il modo di dire italiano è: aspetti che ti cada la manna dal cielo? Evidente qui il richiamo all’evento biblico: un cibo inviato da Dio agli israeliti nel deserto, la manna appunto (una secrezione zuccherina tipica di alcune piante, in particolare di un tipo di frassino).
Frase che si rivolge a qualcuno, spesso ironicamente, per spronarlo a non restare inoperoso o a non limitarsi ad attendere gli eventi.

Questo modo di dire parrebbe adattarsi, oggi, alla generazione NEET (Not in Education, Employment or Training), giovani che non studiano, non si aggiornano, non lavorano. Quasi un esercito inattivo di neo-analfabeti: in Italia sono circa il 25% di 9,5 milioni di giovani dai 15 ai 29 anni; in Europa nel 2013 erano 14 milioni. In ungherese questa tipologia di giovane è descritta così: olyan fiatal, aki nincs az oktatási rendszerben, nem foglalkoztatják és nem vesz résztszakképzésben.
Ma perché sono in questa situazione? Quali le responsabilità dei genitori e della scuola? E, soprattutto, quali i limiti di un modello sociale in cui lo sviluppo sembra bloccato e la crescita non corrisponde più, almeno in Europa, a un aumento dell’occupazione?
La società di massa consente apparentemente a tutti l’accesso ai consumi, ma di fatto impedisce il godimento di diritti essenziali come il lavoro. Una conflitto tra possibile e impossibile che, tra l’altro, genera angoscia e depressione tra le giovani generazioni.

A questi “sfortunati” giovani un piccolo consiglio proverbiale in ungherese: próba szerencse (la fortuna è una prova), ovvero “tentar non nuoce”.