lunedì 8 settembre 2014

Cos’è il “mal d’Ungheria”.

Partenza per la Puszta, Théodore Valerio (1853)
Esiste il “mal d'Ungheria” o, meglio, cos'è?
“Mal d'Hongrie”, malattia epigastrica contagiosa, così chiamata perché individuata nel 1566 in Ungheria tra le fila dell'esercito imperiale di Massimiliano II (intervenuto per opporsi all'invasione turca), ricorda l'Encyclopédie. 
No, non è questo che interessa.

L’espressione italiana ha un uso diverso, che richiama quella più nota di “mal d’Africa” (che ha una corrispondenza solo in francese: mal d’Afrique), ma non ha equivalenti in altre lingue. È simile alla saudade per il Brasile: una forma di malinconia, un sentimento simile alla nostalgia, ma non rivolta come questa al passato bensì vissuta al presente e proiettata nel futuro (il musicista brasiliano Gilberto Gil definsce ogni saudade come “la presenza dell’assenza”). Insomma, un’espressione letteralmente intraducibile.
In ungherese, “mal d’Ungheria” si potrebbe dire vágyát Magyarországra (desiderio d’Ungheria) ma è un’espressione rarissima: la utilizza il poeta Arany János (1817-1882), nel poema epico Az utolsó magyar (L’ultimo ungherese). E poi c’è la “nostalgia di casa” (honvágy), ma questa riguarda solo chi è lontano dal proprio paese.
Alle difficoltà di assegnargli un significato equivalente nelle diverse lingue, si somma quella di un
utilizzo in contesti – e con significati – diversi.

Dunque partiamo dall'uso più comune: espressione di nostalgia per l'Ungheria, che può prendere chi l'ha visitata. Derivante forse dall'attrazione per un esotismo di “casa nostra” (una lingua non indoeuropea nel cuore dell'Europa), o forse dall'ammirazione per l'orgoglioso senso di alterità magiaro. E, comunque, frutto di un arricchimento culturale e umano, come già sosteneva Fosco Tempesti nella premessa al libro da lui curato, Lirici ungheresi (Vallecchi, 1950). Tempesti ricordava anche come una quindicina di anni prima (quindi, intorno al 1935) “la letteratura ungherese richiamava l’interesse di gran parte del pubblico di lettori, sia in Italia come in altri paesi”, e sosteneva che la letteratura magiara “è certo tra le più ricche e più interessanti delle letterature minori”.
Ma già allora, come ancora oggi, ci sono turisti che inseguono in Ungheria solo i luoghi comuni del “divertimento” (a cominciare dalle facili avventure). Nelle sua guida Budapest (1931), il giornalista italo-ungherese Ignazio Balla sottolinea le due “specialità” celebri nel mondo che soprattutto interessano gli stranieri: “la famosa musica tzigana... e le belle donnine della capitale magiara”.

Un'altra interpretazione del mal d'Ungheria è quella di un viaggio nella memoria di una diaspora alla ricerca delle proprie radici. Lo testimoniano diversi libri.
Ricordo quello dell'italiana Anna Maria Háberman, Labirinto di carta: una ricostruzione delle vicissitudini dei propri familiari (v. post del 20 gennaio 2014), in particolare del padre ungherese, sfuggito nel 1933 alle persecuzioni antiebraiche.
Oppure l'ultimo della tedesca Zsuzsa Bánk, presentato così sulla Stampa: “La magia del nuoto per dimenticare il mal d'Ungheria” (Il nuotatore, Neri Pozza, 2014; traduzione di Riccardo Cravero), i cui genitori sono fuggiti dall'Ungheria nel 1956.

Il 1956, appunto, segnala un altro, anzi altri due modi opposti di utilizzare l'espressione “mal d’Ungheria”. Per alcuni, come Indro Montanelli – che seguì la rivolta ungherese da corrispondente del Corriere della Sera – significava vicinanza alla “sublime pazzia” degli studenti di Budapest, in antitesi alle realpolitik di destra e di sinistra. Per altri, era un’etichetta discriminatoria – il socialista Gaetano Arfé la defini “espressione ignobile” (Il Ponte, n. 2, 1960) – verso quei comunisti non allineati che non approvarono l’invasione sovietica che represse la rivolta (e che si allontanarono dal Pci).

Ancora prima, a metà degli anni ’30 dello scorso secolo, come ricorda il Tempesti, la letteratura e la drammaturgia magiara in Italia esercitava un forte fascino. Forse inspiegabile o forse derivante da una sorta di moda inaugurata dalla politica d’amicizia tra i due Paesi (il Patto del 1927 e la Convenzione culturale del 1935), cui diede impulso la rivista italo-ungherese Corvina. Fascino trasmigrato anche nella  settima arte espressa da Cinecittà. È di quell’epoca il “cinema dei telefoni bianchi”, definito poi anche “commedia all’ungherese”, poiché – pur essendo di produzione italiana – si ispirava ad autori teatrali ungheresi. Era anche un modo, per alcuni registi, di affrontare temi sociali nell’Italia fascista, senza incorrere nella censura del Minculpop, data l’ambientazione ungherese (o in paesi immaginari) dei film. Il critico Pietro Bianchi individua la malattia del “mal d’Ungheria” anche in film di Vittorio De Sica, come Maddalena zero in condotta (1940) o Teresa Venerdì (1941). Lo stesso Bianchi fa però notare che, se tale malattia c’era stata, ormai si era in convalescenza senza più l’intenzione “di andare ad appioppare ai nostri amici ungheresi le sciocchezze che si accettano come italiane” (cit. da L’occhio di vetro, ed. Il Formichiere, 1979). La più riuscita contaminazione italo-ungherese nel cinema è del regista austriaco Max Neufeld (che lasciò la Germania nazista per le sue origini ebree) nel film Mille lire al mese (1939), girato a Roma ma ambientato a Budapest.
Sulla “fortuna” della letteratura ungherese in Italia si può leggere in rete un articolo di Ilona Fried, Il Paese della Cuccagna, dove si ricordano i due ingredienti essenziali del romanzo e del teatro ungheresi tra le due guerre: divertimento e miseria, una depressione post-sconfitta – acutizzata dai problemi sociali – mescolata all’umorismo nero.

Ma forse è già nell'Ottocento che nasce il mal d'Ungheria.
Già nel XVIII secolo, a seguito del romanticismo, si afferma il tema estetico del voyage pittoresque.
Erede del Grand Tour settecentesco (mete la Grecia e, soprattutto, l’Italia), il viaggio esotico diventa la realizzazione del “desiderio d'Oriente” della nuova borghesia in ascesa (“orientalismo” nell'arte), conosciuto tramite le esposizioni universali, nonché altra faccia del colonialismo (Africa, Medio Oriente).
In questo panorama, i moti risorgimentali del 1848 e le gesta – ancor prima della poesia – di Petöfi Sándor fanno (ri)scoprire l'Ungheria agli altri europei. Tra gli altri, il pittore francese Théodore Valerio (1819-1879) rappresenta il patchwork etnografico del bacino carpatico in acquarelli e stampe antropologiche (tra cui i ritratti degli zingari, definiti i “Mohicani d'Europa”). Valerio pubblicherà anche il racconto dei suoi viaggi nelle terre danubiane (Essais ethnographiques sur les populations hongroises, 1858), pubblicato parzialmente in Italia su FMR (n. 88 del 1991) assieme agli affascinanti acquarelli sotto il titolo appunto di “Mal d’Ungheria”. Altro reportage noti sono quelli di Gabriel Von Pronay (Skizzen aus dem Volksleben in Hungarn, 1854) e di Victor Tissot (La Hongrie, de l’Adriatique au Danube, 1883).
Tornando al leggendario Petöfi (sulla sua morte, Carducci scrisse: “Sparì un bel Dio della Grecia”), è indubbio che la lotta per la libertà e l’indipendenza di italiani e ungheresi contro l’assolutismo asburgico ha favorito stretti rapporti politici e culturali in cui sono maturati sentimenti di profonda amicizia e un desiderio d'incontro tra i due popoli che peridicamente si rinnova.

Questi, in estrema sintesi, gli antefatti di una “magiarofilia” presente in Italia (e non solo).Ci sono italiani che – pensando agli ungheresi – condividono la definizione di “kis nép, nagy lélek” (piccolo popolo, grande anima). Tale espressione fu utilizzata dallo scrittore ungherese Németh László (1901-1975) nel dramma in versi Négy próféta (Quattro apostoli): una rilettura del Vecchio Testamento dove il popolo ebraico crede nella possibilità di crescere nonostante le avversità. Una metafora della condizione dei magiari in varie fasi storiche, che viene così dipinta dal Balla nella guida già citata: “Sempre martire il popolo ungherese, ti dico, sempre sofferente per una dominazione straniera durata troppo a lungo. Sono secoli che la magnifica Reggia è deserta. Non c’è un re: c’è a regnare, la Sacra Corona di Santo Stefano dalla croce piegata e piagata, simbolo tuttavia di insopprimibile grandezza”.
Penso agli italiani che ho conosciuto dopo aver aperto questo blog. Come Gigliola Spadoni, la quale per decenni si è appassionata alla cultura magiara, raccogliendo anche centinaia di libri che poi ha donato al Consolato ungherese di Bologna (e ora mi ha donato le copie di due introvabili libri di Fosco Tempesti). Penso ad Anna Rossi, infaticabile organizzatrice dell’Associazione italo-ungherese del Triveneto. Penso alla stessa Anna Maria Háberman, che ha raccolto un’estesa documentazione sulle sue radici ungheresi e, dopo i primi due libri, ne sta preparando un altro.
E penso agli ungheresi naturalizzati italiani, come Melinda Tarr, che a Ferrara dirige la rivista bilingue Osservatorio Letterario. Oppure all’ungherese Borsányi Katinka, che vive in Italia da una dozzina d’anni e scrive poesie in italiano, anche per avvicinare le civiltà dei due popoli.
E penso ad altri italiani, che ho incontrato durante la presentazione del mio libro bilingue o che mi hanno scritto al blog, che vorrebbero studiare la lingua ungherese. Ho già dedicato vari post all’argomento. In aggiunta segnalo un sito web nato nel dicembre 2013, “Magyar Nyelv – Impariamo insieme l’ungherese”, che offre ben 28 lezioni di ungherese. Non conosco l’autore, ma ho l’impressione che anche lui, dopo un’estate nell’”incantevole Budapest” (nel 2012), soffra ora di mal d’Ungheria.

-          annate della“Nuova Corvina”
-          annate “Corvina”

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