lunedì 27 aprile 2015

Savaria, la più antica città magiara, oggi “posto del sabato”.

la piazza principale (Fő Tér) di Szombathely
Ospiterà stabilmente il padiglione ungherese all’Expo 2015, quando questa esposizione chiuderà e il padiglione smontato.
È la città ungherese di Szombathely (letteralmente “posto del sabato”, dal mercato settimanale che lì si svolge fin dalle origini). Con ca. 80mila abitanti, è il capoluogo della provincia di Vas, nell’Ungheria occidentale, al confine con la Slovenia (a metà tra i monti Kőszeg e il fiume Rába). Ha un bel centro storico (barocco austriaco) ed è vicino a un parco nazionale, a cavallo tra Austria e Ungheria, ricco di flora e fauna e di sentieri panoramici.

Al tempo della romana Pannonia, si chiamava Savaria, la più antica città in terra magiara, fondata nel 43 a.C. col nome di Colonia Claudia Savariensum. Nel 316 d.C. vi nacque colui che fu poi conosciuto come San Martino di Tours.
È gemellata con 12 città europee, tra cui le italiane Lecco e Ferrara.
Ogni anno, in agosto vi si svolge una manifestazione storica, con i costumi degli antichi romani. È stato addirittura ricostruito un tempio romano, l’Iseum, sui resti di un antico tempio dedicato a Iside. Di fronte trovaimo le due torri moresche di un bel edifici che fu una delle sinagoghe (oggi scuola di musica) tra le più grandi d’Ungheria.

Nelle vicinanze c’è la cittadina di Köszeg, con una bella fortezza dove nel 1532 il capitano Jurisics Miklós guidò per 25 giorni la resistenza contro i turchi, che avevavo occupato tutta l’Ungheria e volevano anche conquistare Vienna.
Altro gioiello architettonico si trova a Ják, un paesino a pochi chilometri da Szombathely: è una delle basiliche più antiche d’Ungheria, risalente al XIV secolo.

venerdì 24 aprile 2015

25 aprile: liberi, tutti.

Marzo '43, Sesto S.G. (MI): operai in sciopero contro il fascismo.
Il primo ricordo del 25 aprile è di quando avevo sei anni, all'inizio degli anni '60. Era un giorno festivo, ma bisognava comunque andare a scuola per partecipare alla celebrazione di tale ricorrenza: una messa e un corteo fino al cimitero per lasciare corone di fiori al monumento ai caduti (in Italia, spesso, il medesimo che onorava i caduti della Prima Guerra Mondiale). Una cerimonia molto istituzionale, di cui non capivo il significato e di cui in famiglia non si parlava. Mi è rimasta una buona impressione solo perché al termine donavano ai bambini un sacchetto di caramelle.

Alla fine degli anni '60, invece, le cose cambiano. I giovani della contestazione, alla ricerca di radici valoriali, riscoprironono la Resistenza, da cui nacque la Repubblica e una delle migliori Costituzioni al mondo. Il 25 aprile diventò così una manifestazione popolare, ma fece emergere anche un lato oscuro degli italiani: una parte non voleva fare i conti col fascismo e accusava la sinistra di strumentalizzazione. Con mio padre ci fu uno scontro generazionale e politico.
Mi appassionai alle storie delle “repubbliche partigiane” e imparai la canzone Bella Ciao, una vecchia canzone popolare riadattata nel testo in onore del “partigiano morto per la libertà”, diventata l'inno nazionale ufficioso dell'Italia democratica.
Questa canzone è famosa in tutto il mondo, anche in ungherese; ecco la prima strofa:

Eljött a hajnal, elébe mentem,
Ó bella csáó, bella csáó, bella csáó, csáó, csáó,
Eljött a hajnal, elébe mentem,
és rám talált a megszálló.

Oggi c'è maggiore equilibrio nel ricordare che la liberazione dal nazifascismo ha dato a tutti libertà e democrazia. Settant'anni fa, il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale – formato non solo da socialisti e comunisti, ma anche da democristiani, liberali e persino monarchici – proclamò l'insurrezione di Milano e delle altre città del nord (dove la lotta partigiana fu più lunga e intensa). Poche settimane dopo, con la capitolazione prima della Germania e poi del Giappone, terminò la Seconda Guerra Mondiale con un bilancio di 50 milioni di morti.

Il lascito più importante del 25 aprile, la festa civile più sentita dagli italiani, è il “ripudio della guerra” iscritto nella Costituzione, oltre a una lezione fondamentale: la libertà è il bene più prezioso per i popoli.
Spero che i miei figli, che spesso partecipano con me alle manifestazioni per la Liberazione, abbiano capito che le libertà (e i diritti che ne conseguono) non sono acquisite una volta per tutte, e che occorre sempre resistere a chi le vorrebbe limitare.

mercoledì 15 aprile 2015

“Tandem”: arte europea all’Accademia d’Ungheria.

Dal 26 marzo e fino al 3 maggio, all’Accademia d’Ungheria di Roma (via Giulia, 1), è possibile visitare le mostre personali di Eva Fischer e di Alberto Baumann (il marito, scomparso lo scorso anno).

La Fischer è fiera delle sue origini ungheresi. È nata nel 1920 a Duravar (nell’attuale Croazia), località che sorge sul sito della romana Aquae Balissae e che deve il suo nome – che significa “città delle gru” – ai conti ungheresi Jankovic. Pochi mesi prima che nascesse Eva, Duravar venne tolta (in base al trattato di Trianon) al Regno d’Ungheria per entrare nella nascente Jugoslavia.
La Seconda Guerra Mondiale, e il dilagare del nazismo, colpiscono la Fischer – il cui padre era rabbino – negli affetti più cari, con la deportazione di decine di familiari e parenti.
Negli anni ‘40 la Fischer si trasferisce in Italia, a Roma, dove la sua sete artistica trova terreno fertile nella Scuola Romana, in particolare nei pittori Cagli, Guttuso, Mafai.
Di sé dice che la propria personalità pittorica non assomiglia a quella di nessuno e che l’importante è credere nel proprio lavoro. Per i suoi meriti culturali e artistici, negli anni ’80 la CEE la nomina “artista europeo”, mentre nel 2008 ottiene l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. Nel 1992 Ennio Morricone gli dedica un CD di 12 brani: A Eva Fischer Pittore.

“Tandem” è sia il connubio, durato più di cinquant’anni, con il giornalista e artista italiano Alberto Baumann, e sia le biciclette richiamate in tante opere dei due artisti (la dinamicità, l’apertura verso l’altro).

Baumann è stato anche scrittore (suo il libro di racconti Se esco vivo da qui e le due raccolte di poesie, Il sapore delle cose e Ti presento il Signore Di tuo). Originali anche le sue opere scultoree, spesso in ferro ricavato da rifiuti industriali.

La mostra, curata da Francesca Pietracci e Németh Pál, seleziona opere basate sul “movimento”: le Scuole di ballo della Fischer oltre a sculture e dipinti astratti di Baumann, di stili molto differenti ma accomunati spiritualmente dall’osmosi intellettuale che ha caratterizzato i due artisti.

-          sito di Eva Fischer
-          sito di Alberto Baumann

martedì 14 aprile 2015

“Siculi di Transilvania” di Aron Coceancig.

Porta (kapu) tipica dei Székely.
[“Siculi di Transilvania: fra Ungheria, Romania e la riscoperta della propria identità”, articolo di Aron Coceancig, tratto dal suo blog e pubblicato sul n. 7/2014 della rivista MOST]

“Ma come, esistono Siculi in Transilvania?” E’ un’interrogativo che forse alcuni di voi si sono posti, almeno chi non ha avuto il piacere di visitare la Terra Siculorum, regione storica della Transilvania orientale. In queste terre montagnose, difficilmente raggiungibili dalle scarse infrastrutture romene, abitano i Siculi, generalmente chiamati Székely in ungherese . No, non si tratta di “Siculi siciliani”, anche se in passato alcuni umanisti abbozzarono una parentela fra i due popoli , ma di una peculiare comunità etnica di lingua ungherese, da sempre attraversata dal contrasto fra l’essere ungheresi e il difendere una propria identità locale.
«Noi Székely abbiamo il diritto di essere orgogliosi perchè discendiamo da Attila e dagli Unni». Queste parole sono state pronunciate da uno dei più famosi personaggi transilvani, il conte Dracula, nel romanzo di Stoker. Personaggio immaginario certo, ma che ci aiuta a comprendere come gli occidentali consideravano questi Siculi. Popolazione rude e forte, dalla spiccata propensione all’arte della guerra. I Székely erano abili militari del Regno d’Ungheria che durante i periodi di pace venivano utilizzati come guardie di confine nei territori più vulnerabili, come appunto i Carpazi orientali, dove vennero trasferiti alla fine del XII° secolo.
La loro origine rimane sconosciuta; c’è chi li considera discendenti dagli Unni, chi da popolazioni centro-asiatiche, quello che rimane certo è che per lunga parte della loro storia sono stati alleati indissolubili dei Re magiari, di cui erano la truppa d’assalto. Proprio il rapporto con il Re e con la guerra sono stati fondamentali per definire questa comunità, le cui terre autonome, non soggette a tassazione e coltivate in comune, resero difficile l’instaurazione di un sistema feudale.
I Székely sono indissolubilmente legati alla storia della Transilvania. Nel 1437 sono citati fra le tre natio costitutive del Principato, mentre nei secoli a venire sono protagonisti di numerose rivolte contro i Principi ungheresi prima, e asburgici poi. Durante la rivoluzione del 1848 non solo si alleano con gli ungheresi, contro l’impero Asburgico, ma si dissolvono nella Nazione magiara. Da allora, i Székely fanno parte, a tutti gli effetti, della Nazione ungherese. Anche quando dopo la prima guerra mondiale la Transilvania diventa parte della Romania, ed i Székely, come molti altri ungheresi, diventano minoranza all’interno di uno Stato che non solo non ha la volontà di integrarli, ma anzi avvia pratiche discriminatorie e assimilatrici.
Oggi, nella Transilvania del XXI° secolo, i Székely rappresentano la più grande comunità allogena, contando più di 600.000 persone. Nell’ultimo secolo infatti, questa regione multiculturale è andata incontro ad una feroce semplificazione nazionale, vedendo numerose minoranze scomparire sotto il peso di guerra ed ideologie . Gli ungheresi di Transilvania invece resistono; anche se “divisi” fra Székely e non-Székely, non solo da caratteristiche culturali o storiche, ma sempre più spesso da dati sociali. La comunità ungherese negli ultimi decenni ha subito un forte calo demografico ed oggi si trova a vivere principalmente in minoranza, i Székely invece vivono compattamente nella regione che chiamano “Terra dei Siculi” [Székelyföld], ed hanno dimostrato una sostanziale tenuta numerica.
La Terra dei Siculi è una regione storica che oggi non gode né di unità amministrativa, né di alcuna forma di autonomia. L’autonomia è stata persa prima nel 1876, con la riforma dell’Impero Asburgico, e poi nel 1968, con l’avvento di Ceauşescu che eliminò la Regione Autonoma Ungherese. Da allora questa comunità è divisa in tre contee: Hargita dove rappresenta l’85,2% della popolazione, Covasna con il 73,7% e Mures con il 38,1%. In realtà questi dati, ricavati dal censimento del 2011, indicano la percentuale di ungheresi, infatti solo poche centinaia di persone si dichiarano Székely. Nel censimento romeno la voce Székely è stata inserita nel 1977 , quando Ceauşescu volle usare questa possibilità per dividere gli ungheresi; obbiettivo non raggiunto, né allora né oggi.
La comunità sicula visse un periodo difficile, fra gli anni ’80 e ’90, quando fu schiacciata tra il conflitto con lo Stato romeno (dal carattere fortemente nazionalista e repressivo) e la necessità dell’unità con la comunità ungherese (alleata di sempre), il cui rapporto era considerato vitale per la sopravvivenza. Simbolo di questi anni sono gli scontri etnici di Târgu Mureş del 1990, quando gruppi di nazionalisti romeni attaccarono gli ungheresi e abbatterono le insegne bilingui della città . Sono questi i mesi in cui le speranze nel cambiamento sancito dal 1989 vengono meno, lasciando spazio alla paura del “nuovo” montante nazionalismo. Il senso di accerchiamento e di minaccia che vive la comunità ungherese favorisce così la marginalizzazione dell’identità seclera, vista dai più come possibile fonte di debolezza.
La propensione a valutare l’identità sicula in maniera “negativa” si è smarrita negli ultimi anni, in particolare dopo il 2004, quando: il 7 gennaio nasce il Consiglio Nazionale Siculo; mentre a dicembre, in Ungheria, un referendum sulla possibilità di concedere la cittadinanza ungherese alle minoranze all’estero viene bocciato. Da questo momento, fra i Székely, si fà largo la convinzione di non poter aspettare aiuto dalla “madrepatria”, ma di poter contare esclusivamente sulle proprie forze.
A questi eventi se ne aggiungono due, non meno importanti, ma più dilatati nel tempo: l‘integrazione nell’UE e la richiesta di autonomia. Una delle principali rivendicazioni della comunità è il riconoscimento dell’esistenza della Terra dei Siculi come regione autonoma. Richiesta, fino ad ora, sempre scontratasi con il rifiuto dei governi romeni. Dalla fine degli anni ’90 però il processo di adesione all’UE ha creato nuove prospettive. La decentralizzazione ha dato maggiori opportunità agli amministratori locali, mentre in ottica europea hanno acquistato vigore le richieste di una modifica amministrativa in grado di riproporre le regioni storiche, fra cui la Terra dei Siculi. L’UE inoltre, tramite un vigoroso apparato legislativo e “ideologico”, incentiva la proliferazione e il rafforzamento di identità locali e regionali. Questo apre nuove possibilità e spazi per i Székely che non perdono occasione di proporre la loro questione a livello europeo. Un esempio è l’apertura nel 2011 a Bruxelles dell’Ufficio di Rappresentanza della Terra dei Siculi, accolto con numerose critiche a Bucareşt.
I rapporti tra i Székely e i governi romeni sono stati contrassegnati da non rari momenti di tensione, per lo più causati e utilizzati dai partiti politici che grazie a tematiche nazionaliste riescono, o almeno sperano, di dirottare l’attenzione pubblica dalla crisi economica e sociale che attanaglia il paese. L’ultimo conflitto, in ordine di tempo, ha riguardato l’utilizzo della bandiera seclera. Il prefetto romeno di Covasna ha infatti vietato nel 2012 l’utilizzo dello stemma sugli istituti pubblici. Questa presa di posizione ha provocato manifestazioni e proteste che non hanno fatto altro che diffondere questo simbolo fra una comunità ancora “fredda” nel suo utilizzo. Così, oggi, in ogni villaggio o città Székely che si rispetti si trovano bandiere sicule che sventolano su case private o nelle piazze pubbliche.
La questione dei simboli, seppur sentita con forza da una parte importante della popolazione, non può però nascondere quelle che sono le priorità principali di queste terre. Queste contee, esterne ai progetti di sviluppo di infrastrutture del governo romeno, hanno una costante difficoltà economica che si ripercuote in salari molto bassi (fra i più bassi della Romania) ed in un’elevata emigrazione verso gli altri paesi dell’UE. Lo sviluppo economico e sociale sono i grandi problemi che la società Székely è chiamata ad affrontare nell’immediato futuro, problemi che per la classe politica locale possono essere risolti solamente grazie all’autonomia, strumento che può portare ad un rinnovato attivismo in campo economico.
Negli ultimi anni si è assistito ad una ridefinizione dell’ “essere Székely” che ha acceso dibattiti interni e conflitti con il potere statale romeno. Tre sono stati i fattori, a mio modo di vedere, determinanti in questa “rinascita identitaria”: l’isolamento di queste contee, vere e proprie “terre di indigeni”; la tensione dei rapporti con Bucareşt e la perdita di fiducia nei rapporti con l’Ungheria; il processo di adesione all’UE. Il rafforzamento dell’identità dei Siculi di Transilvania rende evidente come la globalizzazione e il XXI° secolo non si apprestano, come ipotizzato da molti, a cancellare il particolarismo delle diverse comunità nazionali, ma anzi, in alcuni casi, facilitano il rafforzamento di identità territoriali locali, che non disdegnano di considerarsi vere e proprie Nazioni.

Postilla.
La rivista periodica Most fornisce analisi e reportage su Europa centro-orientale e balcanica, Caucaso e Medio Oriente. Nasce da un progetto dell’omonima associazione, formata da membri di East Journal, giornale libero online nato nel 2010 per raccontare la “nuova” Europa.

-          blog di Aron Coceancig
-          sito web di MOST

lunedì 13 aprile 2015

Paczolay: nuovo ambasciatore d’Ungheria.

Come segnalato,  è tempo di avvicendamenti nei corpi consolari ungheresi nel mondo, anche in Italia. (v. post 6 novembre ‘14).
Il Magyarország főkonzulátusa (consolato generale d’Ungheria) di Milano ha già visto un’avvicendamento (v. post del 9 marzo ’15): Timaffy Judit Vilma è subentrata a Manno István.

Successivamente a Roma, alla Magyarország Nagykövetsége ( Ambasciata d’Ungheria), Balla János è stato sostituito dal dr. Paczolay Péter, già presidente della Corte Costituzionale ungherese.

Lo scorso 23 marzo a Budapest, Paczolay ha incontrato membri della Camera di Commercio – in particolare il presidente del Dipartimento italiano, Németh Miklós, e il co-presidente, Alessandro Stricca – per parlare dei rapporti economici Ungheria-Italia.
È emerso il positivo andamento del PIL ungherese, dopo anni di crisi: +3,2% nel 2014 e un aumento medio previsto nel prossimo quadriennio del 2,6%. Inoltre, l’Ungheria sarà destinataria di 34 milardi di euro provenienti dai fondi strutturali dell’UE.
Per l’Italia l’Ungheria, attraversata da quattro corridoi paneuropei, può essere il varco principale per il commercio con il Centro Est Europa: un bacino di 500 milioni di consumatori. Uno dei settori dove si prevede un incremento degli scambi commerciali italo-ungheresi è quello agroalimentare.

mercoledì 8 aprile 2015

Adria-Danubia: 4° festival di storia e cultura.

Le commemorazioni del centenario della prima guerra mondiale sono già iniziate lo scorso anno, anche se l’Italia entrò ufficialmente nel conflitto solo nel 1915, e continueranno fino al 2018.
Un obbligo morale. La memoria collettiva di quel conflitto terribile sconvolse tutta l’Europa e non solo: ne sono testimonaninza i monumenti ai caduti costruiti in ogni comunità (10 milioni di morti e 21 milioni di feriti), che furono aggiornati con i caduti del secondo conflitto mondiale. “Mai più!” si disse e in tal senso nel ’19 sorse la “Società delle Nazioni”, dopo il ’45 sostituita dall’ONU.

Una pregevole iniziativa, in tal senso, è il 4° Festival di storia e cultura, promosso dal Centro Studi Adria-Danubia e la collaborazione di vari enti e associazioni, italiane e ungheresi (in particolare, le università di Szeged e Szombathely). Una tre giorni di conferenze e incontri, che si svolgerà nell’estremo nord-est dell’Italia.
Si comincia venerdì 10 aprile (h. 15) a Gorizia (Istituto di Sociologia Internazionale, via Mazzini n. 13) con il convegno “La guerra degli altri. Italiani e ungheresi di fronte alla Grande Guerra”, in cui si alterneranno cinque relatori: Gizella Nemeth, Stefano Pilotto, Antonio Sciacovelli, Szabó Tibor, Gianluca Volpi.
Sabato 11 (h. 9) ci si sposta a Sistiana dove è la volta del convegno “L’inferno del Carso. Guerra, memoria, letteratura”, in cui si avvicenderanno ben diciassette relatori; oltre ad alcuni della prima giornata, intervengono: Balla Tibor, Aron Coceancig, Aron e Kinga David, Mauro Depetroni, Adriano Papo, Gianluca Pastori, Tatiana Rojc, Marina Rossi, Fulvio e Lorenzo Salimbeni, Sergio Tazzer.
Infine, domenica 12 a Trieste (h. 10.30) lettura di diari e poesie dell’epoca, a cura di Sciacovelli, con un intervento musicale curato dal Collegio del Mondo Unito.


martedì 7 aprile 2015

Exponsor?

“Feeding the planet. Enegy for life”, Nutrire il pianeta, energia per la vita (ungh. Táplálni a Földet, energiát adni ez életnek) è il tema dell’esposizione universale, quest’anno a Milano (si tiene ogni 5 anni nel mondo).

Un’occasione rara di interrogarsi sulla capacità di soddisfare un bisogno fondamentale del pianeta: cibo e acqua. E un’occasione forse unica per l’Italia di far conoscere il suo prezioso patrimonio enogastronomico, le sue eccellenze agricole, la sua peculiarità turistico-culturale.

Eppure si rischia un flop, essenzialmente per due criticità concomitanti.

La prima conferma, purtroppo, uno stereotipo sugli italiani (e degli italiani verso se stessi), cioè che tendono a lamentarsi del proprio Paese perché inaffidabile e poco organizzato. Sappiamo dal 2008 (quando commissario all’Expo era Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia) che Milano ospita l’Expo. Eppure – nonostante il volontarismo (non sempre fondato) del capo del governo, Matteo Renzi, e del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia –  i lavori sono iniziati seriamente solo da un anno: non saranno completati tutti in tempo, tant’è che è in corso una gara da 1milione di euro per “camuffare” le opere incomplete. Oltre al tonfo dell’area Expo (1 milione di metri quadri che non si sa che fine faranno nel post-expo), tutte le previsioni di ricadute occupazionali e commerciali si sono dimostrate largamente sovrastimate. Per amor di Patria, sorvolo sulla corruzione.

La secondo criticità è la contraddittorietà degli sponsor: multinazionali che rischiano di fagocitare la rassegna (da qui il gioco di parole “Exponsor”= Expo+sponsor). I due principali sponsor – McDonalds e Coca Cola – hanno un’immagine che confligge con un futuro, agricolo e ambientale, equo e sostenibile. Ma anche lasciare nelle mani della Barilla la “Carta di Milano”, cioè l’elaborazione di un protocollo internazionale sull’alimentazione e la nutrizione, lascia alquanto perplessi. Inoltre, diversi stati africani rischiano il ruolo di comparse in quanto sono presenti grazie all’intervento dell’Eni (official partner for sustainability initiatives in african countries), la multinazionale di casa nostra.
Insomma, per citare il mio libro sui proverbi ungheresi: “L’uomo saggio non affida il proprio giardino a una capra” (okos a kecskét nem teszi kertésszé).

Il rischio è quindi che l’Expo 2015 – pensata inizialmente come rassegna “etnografica” degli orti e giardini del mondo fino a declinare in fiera turistico-gastronomica – lasci dietro di sé solo un triste ricordo per un’occasione mancata.

Il 94% della popolazione mondiale è rappresentata all’Expo dai 145 paesi partecipanti. Solo una minoranza di Stati ha un proprio padiglione: in particolare l’Italia (“Vivaio Italia”) e l’Ungheria (“Dalla fonte più pura”). Anche se sarà difficile arrivare ai 20 milioni di visitatori previsti, speriamo che l’iniziativa dei singoli paesi sappia dare un buon contributo alla riflessione sul problema (diritto) “alimentazione” nel mondo, che ha bisogno – più che di maggiore produzione – di nuove idee e culture per migliorare il modo in cui il cibo è prodotto, distribuito, consumato.
È comunque un fatto positivo che milioni di persone, di culture ed etnie diverse, si incontrino e si confrontino pacificamente per parlare dei destini dei popoli e dell’umanità.

-          sito ufficiale Expo

mercoledì 1 aprile 2015

Proverbio/detto ungherese del mese (1024).

Itt a húsa, itt a leve, ecco la sua carne, ecco il suo succo”. Questo modo di dire ungherese, il quale significa che ho detto tutto quello che c’era da dire su un argomento e non c’è altro da aggiungere, è analogo all’italiano questo è il succo” della questione.
Rafforza il concetto il termine carne” (hús), che in questo caso potremmo tradurre polpa”, probabilmente perchè questo alimento è spesso la portata principale di un pasto.
Come sulle tavole degli italiani è difficile che manchi il pane (o la pasta), sulle tavole ungheresi il pasto – specie se con invitati – non può prescindere da uno o, spesso, più piatti a base di carne.
Ho già scritto come questa abitudine in Ungheria si riscontra fin dalla colazione, abbondante e dove regnano i salumi (accompagnati da verdure crude).

A questo proposito, il “salame ungherese” che troviamo in Italia non assomiglia, neanche nell’aspetto, al vero salame ungherese (szalámi). Questo è più sottile (lunghezza 30-40 cm), preparato con carne di maiale (1/3 polpa, 1/3 grasso) e di bovino (restante 1/3), e viene miscelato con sale, pepe, paprika (polvere di peperone essiccato) e aglio (pestato e macerato nel vino bianco). Viene affumicato per mezza giornata e stagionato per 3-4 mesi.


La carne torna nel detto: Se hal, se hús, identico al modo di dire italiano “né carne né pesce”. Si dice a proposito di chi non ha un carattere definito o non si sa da che parte stia.