“Feeding the planet. Enegy for life”, Nutrire il pianeta, energia per la vita
(ungh. Táplálni a Földet, energiát adni
ez életnek) è il tema dell’esposizione universale, quest’anno a Milano (si
tiene ogni 5 anni nel mondo).
Un’occasione rara di interrogarsi sulla capacità di soddisfare un bisogno fondamentale del pianeta: cibo e acqua. E un’occasione forse unica per l’Italia di far conoscere il suo prezioso patrimonio enogastronomico, le sue eccellenze agricole, la sua peculiarità turistico-culturale.
Eppure si rischia un flop,
essenzialmente per due criticità concomitanti.
La prima conferma, purtroppo, uno
stereotipo sugli italiani (e degli italiani verso se stessi), cioè che tendono
a lamentarsi del proprio Paese perché inaffidabile e poco organizzato. Sappiamo
dal 2008 (quando commissario all’Expo era Roberto Formigoni, presidente della
Regione Lombardia) che Milano ospita l’Expo. Eppure – nonostante il
volontarismo (non sempre fondato) del capo del governo, Matteo Renzi, e del
sindaco di Milano, Giuliano Pisapia – i
lavori sono iniziati seriamente solo da un anno: non saranno completati tutti
in tempo, tant’è che è in corso una gara da 1milione di euro per “camuffare” le
opere incomplete. Oltre al tonfo dell’area Expo (1 milione di metri quadri che
non si sa che fine faranno nel post-expo), tutte le previsioni di ricadute
occupazionali e commerciali si sono dimostrate largamente sovrastimate. Per
amor di Patria, sorvolo sulla corruzione.
La secondo criticità è la
contraddittorietà degli sponsor: multinazionali che rischiano di fagocitare la
rassegna (da qui il gioco di parole “Exponsor”= Expo+sponsor). I due principali
sponsor – McDonalds e Coca Cola – hanno un’immagine che confligge con un
futuro, agricolo e ambientale, equo e sostenibile. Ma anche lasciare nelle mani
della Barilla la “Carta di Milano”, cioè l’elaborazione di un protocollo
internazionale sull’alimentazione e la nutrizione, lascia alquanto perplessi. Inoltre,
diversi stati africani rischiano il ruolo di comparse in quanto sono presenti
grazie all’intervento dell’Eni (official
partner for sustainability initiatives in african countries), la
multinazionale di casa nostra.
Insomma, per citare il mio libro
sui proverbi ungheresi: “L’uomo saggio non affida il proprio giardino a una
capra” (okos a kecskét nem teszi
kertésszé).
Il rischio è quindi che l’Expo
2015 – pensata inizialmente come rassegna “etnografica” degli orti e giardini
del mondo fino a declinare in fiera turistico-gastronomica – lasci dietro di sé
solo un triste ricordo per un’occasione mancata.
Il 94% della popolazione mondiale
è rappresentata all’Expo dai 145 paesi partecipanti. Solo una minoranza di
Stati ha un proprio padiglione: in particolare l’Italia (“Vivaio Italia”) e l’Ungheria (“Dalla
fonte più pura”). Anche se sarà difficile arrivare ai 20 milioni di
visitatori previsti, speriamo che l’iniziativa dei singoli paesi sappia dare un
buon contributo alla riflessione sul problema (diritto) “alimentazione” nel
mondo, che ha bisogno – più che di maggiore produzione – di nuove idee e
culture per migliorare il modo in cui il cibo è prodotto, distribuito,
consumato.
È comunque un fatto positivo che
milioni di persone, di culture ed etnie diverse, si incontrino e si
confrontino pacificamente per parlare dei destini dei popoli e dell’umanità.
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