mercoledì 21 gennaio 2015

Alla scoperta di Márai Sándor.

Márai Sándor, in un disegno di Tihanyi Lajos (1924)
A Venezia, venerdì 30 gennaio (ore 18), c’è un’intrigante conferenza di Rozsnyói Zsuzsanna dal titolo Sándor Márai. Il sapore amaro della libertà”, seguita dal documentario di Gilberto Martinelli Sándor Márai e Napoli”. L’iniziativa, come di consueto, è dell’Associazione culturale italo-ungherese del Triveneto ed è ospitata dal Teatro ai Frari (Calle drio l’Archivio, S.Polo 2464/Q).

Morire, suicida, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino sembra una beffa del destino. Sì, perché  Márai Sándor (1900-1989) emigrò dall’Ungheria nel 1948 (recandosi prima in Svizzera e poi in Italia, dove tornò nel periodo ’68-’80) a seguito di contrasti col regime socialista.
Negli anni Ottanta gli proposero di tornare in Ungheria, ma rifiutò e restò a San Diego (USA), dove si era stabilito la prima volta alla fine degli anni Cinquanta.
Nel ’17 aveva fondato il Movimento Clandestino degli Scrittori Comunisti e fu poi in contrasto con gli emigranti che nel ’19 abbandonavano l’Ungheria per sfuggire alla breve esperienza della repubblica sovietica ungherese” di Béla Kun. Poi, da antifascista, non aveva risparmiato critiche al regime filonazista di Horthy Miklós.  
Insomma, Márai si sentiva emarginato dai suoi compatrioti per le sue idee, anche sotto diversi regimi, ma all’estero si sentì sempre uno straniero immigrato, e continuò a scrivere nella sua lingua madre.
Fu in contrasto col figlio János, che scelse di americanizzare il suo nome. La morte della moglie per cancro, seguita da quello dello stesso János, lo prostrarono fino a decidere di togliersi la vita nel febbraio ’89 a San Diego. Nel 1990 l’Ungheria (dove già le sue opere erano note, anche se clandestinamente) riconobbe ufficialmente il valore della sua opera e in suo onore ogni anno viene assegnato un premio letterario.

L’autobiografia di Márai si ritrova nelle sue opere, quasi una settantina, di cui oltre un terzo romanzi, quasi tutti poi pubblicati in Italia (i primi due già nell’anteguerra, da Baldini & Castoldi, con traduzione di Filippo Faber: Divorzio a Buda” e L’amante del sogno”). Nasce a Kassa (l’attuale Košice, in Slovacchia) e completa gli studi in Germania. Inizia a scrivere come gioralista, prima a Berlino e poi a Parigi, e nel ’17 pubblica il suo primo libro di poesie Il libro dei ricordi” (Emlékkönyv). Scrive anche qualche opera teatrale. Il successo arriva con il suo settimo romanzo Confessioni di un borghese” (égy polgár vallomásai) del ’34.

Márai, uno dei più eminenti scrittori del XX secolo, in Italia fu riscoperto solo nel 1998, grazie alla pubblicazione da parte di Adelphi del romanzo Le braci” (A gyertyák csontig égnek del 1942), tradotto da Marinella D’Alessandro.
Le sue opere raccontano, con una certa nostalgia, il tramonto della civiltà danubiana e i danni inferti al vecchio continente dalle crisi dei valori morali, nonché dalla tragedia materiale della guerra. Rappresentano una letteratura d’inchiesta, per le minuziose descrizioni delle realtà (che gli costarono censure nel regime comunista), ma più che raccontare storie d’azione, analizzano l’animo dei personaggi: spesso si tratta di romanzi psicologici.


La Rozsnyói, ungherese di nascita e italiana d’adozione, è docente all’università di Bologna e si occupa da anni dei rapporti storico-letterari tra Italia e Ungheria, è autrice di diversi saggi, nonché traduttrice di autori magiari. È dunque la persona giusta per parlare della vita e delle opere dello scrittore ungherese più conosciuto in Italia e diventato un classico della letteratura europea del XX secolo.

lunedì 19 gennaio 2015

Versi dalla fattoria ungherese.

“Nella vecchia fattoria i-a, i-a-oo...” è una vecchia canzone italiana, con la voce (o verso, ungh. hang) degli animali da cortile. L’asino fa HI-OH, la capra BEE, il gatto MIAO, il cane BAU, il maiale HRRR.
Ciascun verso è riprodotto con un vocabolo onomatopeico (hangutánzó szó), cioè assomigliante al suono prodotto. Stessa origine, spesso, hanno sia il verbo (ige) - che indica l’azione di emettere il verso tipico dell’animale - e sia il nome del verso (hang neve).
Ma quasi sempre tali vocaboli sono diversi da una lingua all’altra, pur riferendosi allo stesso animale. Gli animali non conoscono le diverse lingue umane, e un pulcino ungherese assomiglia a un pulcino italiano. Allora perché il pulcino magiaro (ungh. csibe) fa csip-csip (prounucia it.: cip-cip) e quello italiano fa pio pio?

Poiché la fonetica di ciascuna lingua è diversa e diversi sono tempi e modi di formazione (e percezione) delle parole, cambia l’associazione versi/suoni (in alcuni casi, si importa da un’altra lingua: per il grugnito del maiale, in italiano si usa oink oink, come in inglese).
In Italia è abitudine usare il verbo “fare” accompagnato dalla trascrizione del verso animale: “il gallo fa chicchirichì” (si potrebbe dire anche, ma non si usa, “il gallo chicchìria”, dal verbo “chicchiriare”). In Francia però il gallo fa cocoricò, in Germania kikeriki, in Inghilterra cock-a-doodle-do e in Spagna quiquiriqui.
In ungherese il sostantivo che denomina il verso dell'animale si costruisce in modo semplice e regolare, aggiungendo alla radice verbale il suffisso ás/és (in base all'armonia vocalica).
In italiano  tale costruzione è variabile e irregolare: a volte è il participio del verbo, a volte una sua flessione con vari suffissi . Quando manca il sostantivo che denomina il verso, in italiano si sostantiva il relativo verbo, es.: il tubare delle colombe.

In Ungheria, invece, si usa spesso la forma verbale: “a kakas kukorékol” (il gallo chicchìria). Ma a volte si usa: “a kakas azt mondja: kukurikú ” (il gallo dice chicchirichì).
L’ungherese poi è più completo dell’italiano per quanto riguarda il nome del suono: kukorékolás è il verso del gallo, che in italiano manca. Kukuricù è il verso equivalente a chicchirichì.
L’ungherese è anche spesso più preciso: ad esempio, differenzia il verso del corvo (károgás) da quello della gazza (csörögés); in italiano è sempre “gracchìo”.
In altri casi, anche l’italiano è completo: l’asino raglia (ungh. a szamár ordít), il suo verso fa hi ho (), e si chiama raglio (ordítás).
Come detto, però, in italiano è poco frequente l’uso del nome del verso. Ecco un altro esempio (con traduzione in ungherese): “il cane abbaia oppure il cane fa bau bau” (a kutya ugat vagy a kutyaugatás vau vau), mentre è rarissimo dire “l’abbaio del cane” (a kutyaugatás).
Tra italiano e ungherese (come per altre lingue) non sempre c’è corrispondenza di verbi per lo stesso animale (segnalate errori!). E per lo stesso animale ogni cultura individua vari versi, come per il cane: in italiano, una decina; in ungherese, cinquantaquattro!

Ecco un elenco di versi dianimali (suono, nome, verbo), una sessantina in italiano e in ungherese, utile promemoria anche nella propria madrelingua, di cui spesso non ricordiamo questi versi bizzarri e strani.
Già si sa che il gatto miagola e il leone ruggisce. Forse si ricorda anche che l’elefante barrisce. Si scoprirà che il tacchino gloglotta, il cervo bramisce e la giraffa landisce.
Ma non sempre si trova in una lingua un verso adatto a un dato animale. Infatti, come recita un’altra canzoncina per bambini: “il coccodrillo come fa?”

-          Állati hangok (magyar)

mercoledì 14 gennaio 2015

La prima biografia italiana su Nagy Imre.

Nagy Imre (1896-1958)
L’Europa sembra insidiata da spinte disgregatrici, interne ed esterne. Occorre una nuova capacità di guardare avanti, di proporre un cammino condiviso.
Ma occorre anche saper guardare indietro, per imparare dagli errori e capire da dove veniamo.
Questo ci aiutano a fare libri di storia come quello di Romano Pietrosanti, autore di Imre Nagy, un ungherese comunista. Vita e martirio di un leader dell’ottobre 1956 (Mondadori, 2014).

Il libro sarà presentato a Padova, giovedì prossimo, 15 gennaio (h. 16.30, aula magna di Palazzo Luzzato Dina, via del Vescovado n. 30).
Buona occasione anche per conoscere il percorso che ha portato il sacerdote Pietrosanti (docente di filosofia all’Angelicum di Roma) a scrivere questa biografia, dopo aver pubblicato un altro libro ben diverso: L’anima umana nei testi di San Tommaso (ESD, 1996).
E buona occasione di conoscere Federigo Argentieri, che del libro su Nagy ha scritto la prefazione. Argentieri, docente della John Cabot University di Roma, è un profondo conoscitore di storia ungherese e nel 2006 ha pubblicato per Marsilio il volume Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata.
All’incontro farà gli onori di casa la dovente dell’università padovana, Cinzia Franchi, altra ungarologa di lungo corso, e parteciperanno anche Egidio Ivetic (università di Padova) e Francesco Leoncini (università di Venezia).


La vita di Nagy Imre (1896-1958) è uno specchio, insieme luminoso e tragico, delle contraddizioni europee del secolo scorso. Questo politico ungherese comunista, capo di governo in due occasioni, voleva superare i blocchi contrapposti e coniugare socialismo e liberaldemocrazia. Fu giustiziato per responsabilità dei comunisti filosovietici (tra cui anche del PCI), dopo il fallimento della rivolta ungherese del ’56, soffocata dalle truppe sovietiche. Oggi Nagy è considerato un eroe nazionale. La sua riabilitazione, il 16 giugno 1989, ha segnato la rinascita dell’Ungheria.

domenica 11 gennaio 2015

Io sono Charlie. Én is vagyok Charlie.

Oggi a Parigi una folla straordinaria – di vario orientamento politico e religioso, di varie nazionalità ed etnie – manifesta per la pace e contro il terrorismo, in solidarietà alle vittime francesi (i giornalisti di Charlie Hebdo e i due polizziotti prima, i clienti di un negozio ebraico poi).
Vorrei essere là, perché mi sento colpito direttamente (anni fa anch'io ho fatto vignette, per esprimere, più direttamente di un lungo ragionamento, la mia critica a certe ingiustizie).

Ci sarà gente comune e ci saranno capi di stato e di governo: dalla Merkel a Cameron; per l'Italia c'è Matteo Renzi, per l'Ungheria Orbán Viktor. Alcuni di questi leader, forse, non apprezzano la satira irriverente di Charlie (che ha sempre preso di mire l'errore, non l'errante, e che apprezzo dai tempi dei primi Linus, Frigidaire e altre riviste comico-satiriche degli anni '70), ma l'ipocrisia è comunque un omaggio alla virtù.
La virtù della libertà di parola (szólászabadság), la virtù della laicità (világiasság), cioè la concezione di uno Stato senza dogmi, dove politica e religione sono separati.
Chi rappresenta questa visione del mondo viene considerato un nemico dal fondamentalismo religioso, islamico in questo caso. Ma non dimentichiamo che il terrorismo trova seguaci anche nelle nostre società, che il fanatismo è agevolato da disegualianze sociali e discriminazioni xenofobe. E anche dall'ipocrisia dei governi democratici che non criticano paesi come l'Arabia Saudita, dove un blogger (Raef Badawi) è condannato a 10 anni di galera, 200mila dollari di multa e mille frustate (50 ogni venerdì, in pratica una morte lenta tramite tortura), solo per le sue parole critiche.

Come se ne esce?
Non limitandosi a chiedere più sicurezza (per la quale l'UE potrebbe fare senz'altro meglio, se integrasse polizie e intelligence), ma rendendo più effettivi quei principi scolpiti oltre due secoli fa in Francia: liberté, égalité, fraternité.
Se ne esce anche con il dialogo interculturale, che non significa semplice tolleranza di una società multiculturale, ma confronto e critica tra identità che si mettono in gioco e considerano la diversità una ricchezza.

mercoledì 7 gennaio 2015

Giovani ungheresi mammoni?

Giovani 25-34 anni che vivono in famiglia.
Uno stereotipo sul giovane italiano-tipo è che sia “mammone” (non c’è un corrispettivo ungherese, ma si potrebbe dire “a mama kedvence”, il cocco di mamma). Di conseguenza, tarda l’uscita dalla casa natale e l’indipendenza dalla famiglia di origine, per costituirsene una propria oppure vivere da single.
I dati statistici sembrano avvalorare tale immagine: il 46,6% dei giovani italiani tra i 25 e i 34 anni vive ancora con mamma e papà (ungh. anya és apa), mentre nei paesi scandinavi siamo al 4%.
Ma le stesse fonti (dati Eurostat) rilevano che ben il 43% dei giovani ungheresi resta nella famiglia (ungh. család) d’origine. Quindi anche gli ungheresi sono mammoni?

In realtà, molti sono i fattori che influenzano il comportamento dei giovani, anche culturali. La disoccupazione giovanile (per di più, in Italia, senza reddito minimo per chi è alla ricerca del primo impiego) è uno dei più rilevanti. Poi c’è la difficoltà di trovare case in affitto a prezzi convenienti.
L’ingresso nella vita adulta dovrebbe avvenire “naturalmente” al termine degli studi, con l’ingresso nel mondo del lavoro e l’uscita dalla famiglia d’origine. Nel nord Europa ciò avviene agevolmente, in diversi casi anche prima di concludere la formazione scolastica, e in ciò giocano un peso i fattori socio-culturali.
La situazione economica di Italia e Ungheria, che hanno comunque un costo della vita decisamente diverso, sono simili: alta disoccupazione, bassa crescita. L’Ungheria di recente ha avuto qualche indicatore economico positivo (anche grazie alle oscillazioni del fiorino ungherese), ma la crisi grava ancora. Addirittura la popolazione ungherese, diversamente da quella italiana e degli altri Paesi europei, è diminuita in conseguenza della scarsa immigrazione e dell’aumento dell’emigrazione (fenomeno insolito). Quindi anche i giovani ungheresi hanno difficoltà a trovare lavoro in patria. A ciò si aggiunge un mercato immobiliare rigido, visto che prevalgono nei piccoli centri le unità abitative monofamiliari. Così, la permanenza in famiglia diventa una scelta obbligata, in Ungheria come in Italia (dove la precarietà del lavoro è molto più alta).

I giovani di oggi (tra cui crescono i Neet, cioè chi non lavora e non studia) sono destinati a “mantenere”, come le generazioni precedenti, la popolazione inattiva: bambini e anziani. Ma, mentre i primi diminuiscono, i secondi aumentano in proporzione maggiore, mettendo in crisi i sistemi di welfare, che si tende a trasformare in workfare, dove si è costretti ad accettare un lavoro (se lo si trova) a qualsiasi condizione.
L’aumento esponenziale della produttività del lavoro (grazie alle nuove tecnologie) nel Novecento avrebbe dovuto portare alla diminuzione drastica dell’orario di lavoro, assieme alla promessa della “piena occupazione”, e all’aumento del tempo disponibile per prendersi cura di sé (salute e relazioni interpersonali) e dell’ambiente. Invece, così non è stato: la conseguenza è un aumento delle disuguaglianze: il Pil dei Paesi c.d. sviluppati è diventato più basso, ma la ricchezza (patrimoniale e, soprattutto, finanziaria) è diventata più alta, producendo così maggiore povertà.
Altro che mammoni! Qui ci sarebbero da ripensare i modi di vivere, mettendo al primo posto non il Pil ma i diritti umani e dell’ambiente, per diffondere il benessere. Come diceva Henry Ford: “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”.

giovedì 1 gennaio 2015

Proverbio/detto del mese (1021).

Aki sokat ígér, keveset ad; dall'ungherese “chi promette tanto, poco dà”. Praticamente uguale al proverbio italiano: chi molto promette, poco mantiene.
Cominciare un nuovo anno – forse ancora di stagnazione economica e crisi sociale – con questo proverbio, serve a tenere gli occhi aperti.
Questo precetto mette in guardia dal credere troppo facilmente a chi “promette mari e monti” (“le mente del politico mente”, si dice in Italia).
Anche quest’ultimo modo di dire italiano ha un equivalente ungherese: “fűt-fát ígér”, e si sa che chi fa promesse eccessive non ha intenzione di mantenerle. In questo modo di dire ungherese compare una ikerszó, parola doppia o gemella, traducibile come “erba-albero”. La lingua magiara è piena di parole gemelle (ikerszavak), create da poeti ma più spesso dalla fantasia popolare – frutto dell’ingegnosità della “gente semplice” (egyszerű emberek) o “figli del popolo” (nép fiai) – ed entrati nel linguaggio comune.

Tornando alla “promessa” (igéret), di essa si occupano vari proverbi, per circostanze anche opposte: “ogni promessa è debito” è l’impegno dell’uomo d’onore, ma “promettere non costa nulla” è il motto dell’imbroglione (o del gradasso), e così succede che “nel paese delle promesse si muore di fame”.
Una persona dotata di morale è Gino Strada, fondatore di Emergency, che così riflette: “Promettere costa poco, si dice, se poi non si mantiene l’impegno. E non farlo? Costa ancor meno, praticamente niente, basta girarsi dall'altra parte. Una promessa è un impegno, è il mettersi ancora in corsa, è il non sedersi su quel che si è fatto. Dà nuove responsabilità, obbliga a cercare, a trovare nuove energie”.