mercoledì 7 gennaio 2015

Giovani ungheresi mammoni?

Giovani 25-34 anni che vivono in famiglia.
Uno stereotipo sul giovane italiano-tipo è che sia “mammone” (non c’è un corrispettivo ungherese, ma si potrebbe dire “a mama kedvence”, il cocco di mamma). Di conseguenza, tarda l’uscita dalla casa natale e l’indipendenza dalla famiglia di origine, per costituirsene una propria oppure vivere da single.
I dati statistici sembrano avvalorare tale immagine: il 46,6% dei giovani italiani tra i 25 e i 34 anni vive ancora con mamma e papà (ungh. anya és apa), mentre nei paesi scandinavi siamo al 4%.
Ma le stesse fonti (dati Eurostat) rilevano che ben il 43% dei giovani ungheresi resta nella famiglia (ungh. család) d’origine. Quindi anche gli ungheresi sono mammoni?

In realtà, molti sono i fattori che influenzano il comportamento dei giovani, anche culturali. La disoccupazione giovanile (per di più, in Italia, senza reddito minimo per chi è alla ricerca del primo impiego) è uno dei più rilevanti. Poi c’è la difficoltà di trovare case in affitto a prezzi convenienti.
L’ingresso nella vita adulta dovrebbe avvenire “naturalmente” al termine degli studi, con l’ingresso nel mondo del lavoro e l’uscita dalla famiglia d’origine. Nel nord Europa ciò avviene agevolmente, in diversi casi anche prima di concludere la formazione scolastica, e in ciò giocano un peso i fattori socio-culturali.
La situazione economica di Italia e Ungheria, che hanno comunque un costo della vita decisamente diverso, sono simili: alta disoccupazione, bassa crescita. L’Ungheria di recente ha avuto qualche indicatore economico positivo (anche grazie alle oscillazioni del fiorino ungherese), ma la crisi grava ancora. Addirittura la popolazione ungherese, diversamente da quella italiana e degli altri Paesi europei, è diminuita in conseguenza della scarsa immigrazione e dell’aumento dell’emigrazione (fenomeno insolito). Quindi anche i giovani ungheresi hanno difficoltà a trovare lavoro in patria. A ciò si aggiunge un mercato immobiliare rigido, visto che prevalgono nei piccoli centri le unità abitative monofamiliari. Così, la permanenza in famiglia diventa una scelta obbligata, in Ungheria come in Italia (dove la precarietà del lavoro è molto più alta).

I giovani di oggi (tra cui crescono i Neet, cioè chi non lavora e non studia) sono destinati a “mantenere”, come le generazioni precedenti, la popolazione inattiva: bambini e anziani. Ma, mentre i primi diminuiscono, i secondi aumentano in proporzione maggiore, mettendo in crisi i sistemi di welfare, che si tende a trasformare in workfare, dove si è costretti ad accettare un lavoro (se lo si trova) a qualsiasi condizione.
L’aumento esponenziale della produttività del lavoro (grazie alle nuove tecnologie) nel Novecento avrebbe dovuto portare alla diminuzione drastica dell’orario di lavoro, assieme alla promessa della “piena occupazione”, e all’aumento del tempo disponibile per prendersi cura di sé (salute e relazioni interpersonali) e dell’ambiente. Invece, così non è stato: la conseguenza è un aumento delle disuguaglianze: il Pil dei Paesi c.d. sviluppati è diventato più basso, ma la ricchezza (patrimoniale e, soprattutto, finanziaria) è diventata più alta, producendo così maggiore povertà.
Altro che mammoni! Qui ci sarebbero da ripensare i modi di vivere, mettendo al primo posto non il Pil ma i diritti umani e dell’ambiente, per diffondere il benessere. Come diceva Henry Ford: “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”.

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