Il 9
maggio è la festa dell'Europa.
Una data considerata l'atto di nascita dell'Unione Europea (Europái
Unió).
In questo giorno, nel 1950 a Parigi, il ministro degli esteri
francese Robert Schuman espose in un discorso una nuova idea di
cooperazione tra gli Stati del Vecchio Continente.
L'anno
successivo venne firmato il trattato (CECA) per condividere la
produzione di carbone e acciaio e, quindi, per prevenire nuove
guerre.
Negli
anni seguenti altre tappe portarono, passando per la CEE, alla
costituzione dell'Unione Europea (UE, 28 stati) e all'adozione della
moneta unica (19 stati).
Si
può oggi dire che “abbiamo
fatto l'Europa, ora dobbiamo fare gli europei?” (frase analoga, ma
riferita all'Italia, fu di Massimo D'Azeglio). Pare proprio di no.
La
costruzione europea, primo esperimento storico di pacifica
aggregazione di Stati (federazione o confederazione?), attraversa una
crisi che potrebbe essere letale.
Già
l'aver messo il carro davanti ai buoi, cioè l'aver adottato la
moneta unica in assenza di istituzioni politiche adeguate, è fonte
di serie contraddizioni e rende evanescente la sovranità popolare.
Ancor più grave è che, crollato l'ordine mondiale pre-'89, l'UE non
scelga un proprio ruolo nel mondo e non trovi soluzioni ai grandi
problemi dell'attuale modello di sviluppo: crisi ambientale,
disoccupazione, diseguaglianze sociali.
In
occasione dell'apertura dell'Expo sull'alimentazione, papa Francesco
ha spronato l'umanità a “globalizzare
la solidarietà”, a far sì che ci sia “pane
e lavoro per tutti”. Un appello condivisibile, che però l'Europa
nei fatti non raccoglie. Non solo l'UE è inerte di fronte al
problema epocale dei migranti (persone che scappano da guerre, fame e
povertà): non è solidale neppure all'interno dei propri confini, in
quanto le politiche sociali e quelli fiscali sono diverse e
scollegate tra loro, quando non addirittura in competizione. Per non
parlare dell'abbandono di qualsiasi politica finalizzata alla “piena
occupazione”, o delle politiche ecologiche di sola facciata.
La
politica dell'UE non sembra all'altezza della situazione e, anzi,
sembra più dividere che unire. Sembrerà un paradosso, ma credo che
sarà dalla cultura, dal patrimonio di diversità culturale, che
l'Europa potrà trovare la sua ragione di essere e il suo ruolo nel
nuovo ordine mondiale: una ricchezza umana da valorizzare, un dono
all'umanità per un mondo più giusto. L'interculturalità
(interkulturalitás)
è la strada per progredire in pace.
Giova
forse ricordare un monito che, oltre mille anni fa, il primo re
ungherese, Stefano I, scrisse per suo figlio Imre: unius
linguae, uniusque moris regnum imbecille et fragile est; cioè,
debole e caduco è il regno che possiede una sola lingua e unici
costumi.
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