Com’era l’Ungheria 80 fa?
Un inglese diciannovenne la attraversa in un vitalistico viaggio, a piedi, dall’Olanda a Costantinopoli. Non come turista, ma come un viaggiatore che si ferma ad ascoltare, osservare, imparare.
Un inglese diciannovenne la attraversa in un vitalistico viaggio, a piedi, dall’Olanda a Costantinopoli. Non come turista, ma come un viaggiatore che si ferma ad ascoltare, osservare, imparare.
Patrick Leigh Fermor (1915-2011) ha poi raccontato quel
viaggio di formazione in tre libri. Ho letto il secondo, Fra i boschi e l’acqua (Adelphi, 2013; traduzione di Adriana
Bottini e Jacopo M. Colucci), ambientato in Ungheria e Transilvania.
Questa parte del viaggio, seguendo il corso del Danubio, comincia da Esztergom, al confine tra Slovacchia e Ungheria, e arriva alle Porte di ferro, in Romania, dopo aver attraversato “la frontiera più odiata d’Europa” (nel contenzioso tra i due Stati, Tremor si colloca a metà strada tra la teoria ungherese del vuoto e quella rumena del focolaio, che legittimerebbero le rispettive rivendicazioni territoriali sull’Erdély/Ardeal, e “desidera ardentemente la riconciliazione” tra i due popoli).
È una lettura avvincente, piena di dotte descrizioni
naturalistiche, architettoniche, etnologiche, negli scenari della grande
pianura ungherese (Alföld) prima, e dei
boschi montani della Transilvania (fino al 1920 parte dell’Ungheria, dove
ancora oggi vive la più grande minoranza in Europa, quella magiara) poi.
Una lettura densa di digressioni stimolanti sulla lingua
(“miracolosamente integra”) e sulla storia ungherese, in quegli anni sfociata
nello smembramento del multietnico Regno d’Ungheria, sancito dal Trattato del
Trianon a seguito della sconfitta nella I guerra mondiale.
Fermor descrive un mondo – quello dell’aristocrazia decaduta
e quello di pastori e contadini non toccati dalla rivoluzione industriale – che
da lì a pochi anni scomparirà, con la catastrofe della II guerra mondiale e le
trasformazioni socio-economiche del dopoguerra.
È anche un’esperienza sentimentale e ludica, foriera di
nuove sensazioni, come il mulatság (sul
vocabolario è tradotto “divertimento, trattenimento, kermesse”, ma questa parola
ungherese è intraducibile e corrisponde a uno stato d’animo brioso, godereccio
ma anche melanconico, suscitato da musica zigana, ballo e alcool).
Un libro da leggere, per salvare la ricchezza delle diversità culturali. “La cultura è ciò che resta quando si è tutto dimenticato”, secondo Erbert Herriot, citato da Fermor.
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