martedì 4 febbraio 2014

Addio a Jancsó, “sguardo di dio”.



Si è spento a 92 anni a Budapest uno dei maggiori cineasti ungheresi, Jancsó Miklós. È considerato l’emblema del “Nuovo cinema ungherese”, nato a seguito della repressione della rivoluzione ungherese del 1956 (“lo stalinismo, più che un errore, è un crimine” constatò Jancsó).
Era molto attratto dalla storia e poco dal montaggio: faceva largo uso del “piano sequenza”, ripresa cinematografica senza stacchi, forse ispirata dal paesaggio della steppa ungherese, la puszta. Il suo cinema (inizialmente documentaristico), contraddistinto da un pessimismo storico in parte stemperato nella produzione degli ultimi anni, ha continuato ad analizzare implacabilmente i rapporti tra individuo, potere e comunità.
Fu un “gigante del cinema mondiale “, secondo Kinoeye, anche se i suoi film spesso furono poco visti, in patria e all’estero, per problemi sia con la distribuzione che con la censura.
Come ricorda Silvana Silvestri (il manifesto, 2 febbraio), a Jancsó fu attribuito – dal regista polacco Andrzej Wajda – “lo sguardo di dio”, per la capacità di trasformare gli spettatori in spietate divinità che assistono con distacco alle vicende della storia.

Negli anni ’70, per molti giovani occidentali protagonisti della “contestazione”, le forme e i contenuti nuovi che provenivano dalla cinematografia dell’est offrivano uno sguardo nuovo sul mondo, anche se a volte criptico (dovevano superare la censura).
Ricordo la visione in un cinema d’essai nel ’76, proveniente dal festival di Cannes,  del film Vizi privati, pubbliche virtù (prodotto nel periodo “italiano” di Jancsó) che suscitò scandalo: venne sequestrato due volte, e la sceneggiatrice Giovanna Gagliardo condannata inizialmente per oscenità ma poi assolta.

La notorietà internazionale arriva negli anni ’60 con una trilogia: “I disperati di Sandór” (Szegénylegények), “L’armata a cavallo” (Csillagosok, katonák), “Silenzio e grido” (Csend és kiáltás). Nel 1990 al Festival del cinema di Venezia gli viene riconosciuto il Leone d’oro alla carriera.

Il regista ungherese e altri grandi registi dell’Est (Andrzej Wajda, Krisztof Zanussi, Ivan Passer ecc.), con la loro arte, riuscirono a scavalcare le barriere fisiche e ideologiche che dividevano l’Europa fino all’’89 e salutarono favorevolmente nel 2004 l’allargamento dell’Unione Europea.

- intervista del 2002 (in inglese)

lunedì 3 febbraio 2014

Proverbio/detto ungherese del mese (1010).




Minél több dolog változik, annál több dolog marad ugyanaz (quanto più le cose cambiano, tanto più rimangono le stesse). Questo proverbio, il cui significato è che i cambiamenti turbolenti non incidono sulla realtà in modo profondo e non fanno altro che rafforzare lo status quo, non ha un equivalente italiano. Ma pare che non sia proprio un proverbio, bensì un epigramma del critico francese Jean-Baptiste Alphonse Karr (1808-1890), editore del quotidiano parigino Le Figaro e del mensile Les Guêpes. Su quest’ultimo, nel 1849, fu pubblicata l’espressione: “plus ça change, plus c'est la même chose”, che passò come sentenza anche nell’uso anglosassone (“the more things change the more they stay the same”) e in altre parti del mondo.
Da eventi collettivi, tale “proverbio” è passato anche a indicare situazioni della vita in cui una persona si sforza di cambiare il mondo attorno a sé, ma senza risultato dato che non riesce neppure a cambiare se stessa. È questo il caso della serie tv americana Everwood (2° stagione).
La frase viene anche ripresa da un diffusissimo videogame sparatutto, Call of Duty (noto anche come Modern Warfare 2, MW2), per bocca del generale Shepherd.

Un’analogia ce l’ha il modo di dire italiano “Cambiare tutto per non cambiare niente”. Questo detto deriva dall’adattamento di una frase di un personaggio romanzesco. Si tratta di Tancredi, nipote del principe di Salina, che – di fronte all’arrivo dei garibaldini in Sicilia e al possibile cambio di regime – afferma: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Il Gattopardo è il romanzo da cui è tratto, scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) e pubblicato postumo nel 1958 (nel 1961 è stato tradotto anche in Ungheria, A párduc). Ne è stato tratto anche un film di successo, diretto da Luchino Visconti nel 1963. Da allora “gattopardismo” (sinonimo di “trasformismo”, in ungh. transzformizmus) si usa per etichettare quei comportamenti dei ceti dominanti che – in un nuovo contesto socio-politico – simulano un cambiamento per conservare i privilegi.
Mutatis mutandi, è il rischio che si corre ogni volta che si sperano/temono grandi cambiamenti, magari annunciati – come oggi in Italia – da uno scontro generazionale che si manifesta periodicamente (ricordo nei ribelli anni ’50-’60 del XX secolo il costume giovanile di additare gli adulti come “matusa”).

lunedì 20 gennaio 2014

Giornata della memoria.



Busto di Perlasca (Budapest)
Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa sovietica, alleata degli anglo-americani, abbatte i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz (Polonia), quello con la cinica scritta all’ingresso “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi). Così il mondo – alla vigilia della definitiva sconfitta del nazi-fascismo - scopre l’orrore della “soluzione finale” nazista: lo sterminio degli ebrei (nei campi trovarono la morte anche altre categorie di prigionieri).
Auschwitz è diventato il simbolo del “lager”, dal 1979 dichiarato “patrimonio dell’umanità” dall’UNESCO, affinché non scompaia la testimonianza terribile dell’olocausto (shoah in ebraico).
Nel 2000 l’Italia ha stabilito in quella data il “giorno della memoria”, che quest’anno si celebra per la 14° volta, affinché – tramite incontri, cerimonie e momenti comuni di rievocazione dei fatti e di riflessione su quanto accadde nei campi di concentramento nazisti – anche le nuove generazioni dicano “mai più!”.
La legge 221 del 2000 vuole anche ricordare “coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.

Anche in Ungheria si ricorda la giornata internazionale della memoria dell’olocausto (holokauszt nemzetközi emléknapja). Il titolo onorifico israeliano di “Giusti tra le nazioni”, per commemorare i non ebrei che aiutarono gli ebrei a sfuggire allo sterminio, è andato tra gli altri a 791 ungheresi e 524 italiani.

Questo blog partecipa alla “giornata della memoria” (ungh. emléknapja), ricordando le storie di due figure esemplari.

Giorgio Perlasca, commerciante comasco; durante la 2° guerra mondiale si trovò a Budapest e, fingendosi console generale spagnolo, salvò dalla deportazione e dallo sterminio oltre 5mila ebrei ungheresi.
Oltre a un film tv del 2002 (con Luca Zingaretti nel ruolo di Perlasca), ricordano la sua storia almeno 5 libri. Tra questi Giorgio Perlasca, un italiano scomodo (di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero, Chiarelettere, 2010), che contiene un'intervista inedita realizzata nel luglio 1992, poco prima della morte, nella quale Perlasca ripercorre le principali tappe della sua vita.

Aladár Hábermann, medico ebreo ungherese che nel ’33 si trasferì a Busto Arsizio (VA) dove prestò aiuto a profughi ebrei e perseguitati dal nazi-fascismo. Ma sua figlia Anna Maria (nata in Italia da madre italiana) scopre una scioccante storia, che il padre le aveva nascosto fino alla morte per evitarle il dolore: la tragica fine nei lager di nonni, zii e del fratello Tamás. Anna Maria Hábermann ha raccolto documenti e ne ha fatto un libro, Labirinto di carta (Proedi, 2010; Domszky Emöke ha tradotto dall’ungherese l’epistolario famigliare). Parte del materiale era già stato pubblicato a Budapest come “il libro di Tomaso” (Tamás könyve, Kieselbach, 2009), diventando anche un film-documentario ungherese.
La vicenda è diventata poi uno spettacolo, “Hábermann, ultima testimone del silenzio”, messo in scena nel 2010 dalla compagnia del Teatro Sociale di Busto Arsizio.
Il personale viaggio della memoria – attraverso lettere e documenti della sua famiglia ungherese, quasi totalmente annientata nei lager – ha condotto Anna Maria Hábermann (medico nonché pianista) a scrivere già nel 2001 il romanzo d’esordio L’ultima lettera per Tibor (Giuntina, 2001), una delicata storia d’amore sullo sfondo della rivoluzione ungherese del 1956.
La gran mole di documenti raccolti dalla Hábermann in varie parti del mondo sulla diaspora ebraica - parenti, nonché coloro che furono salvati dal padre – sarà probabilmente argomento del prossimo libro. Lo stesso cognome della sua famiglia è frutto di questa storia: a fine ‘800 una legge dell’impero austro-ungarico impose agi ebrei, per avere cittadinanza, di comprarsi un cognome tedesco.

Da segnalare anche l’uscita nei cinema del film di Roberto Faenza “Anita B.”: il dopoguerra attraverso gli occhi di una giovanissima sopravvissuta all’olocausto. Il film è tratto da un romanzo di Edith Bruck (1932), scrittrice ungherese naturalizzata italiana, il cui titolo – “Quanta stella c’è nel cielo” – non è un errore ma il primo verso di un’amara poesia di Petöfi Sándor. Tra gli interpreti, anche l’attrice ungherese ma ormai “adottata” in Italia, Andrea Osvárt, volto dell’Anno culturale italo-ungherese 2013.
Questo film ci ricorda che senza memoria non c’è vita, ma anche la durezza del percorso dalla (esperienza della) morte alla (ricostruzione della) vita.

-          fondazione Perlasca

lunedì 13 gennaio 2014

Anno nuovo, nuova edizione proverbi ungheresi.



“...sia il lavoro che la pubblicazione sono storici e tutti noi – ungheresi e italiani – dobbiamo esprimere un profondo ringraziamento e gratitudine...”
(Melinda Tamás-Tarr Bonani, Osservatorio Letterario)

Lo scopo della mia raccolta di proverbi e detti ungheresi Affida il cavolo alla capra. 1001 detti e proverbi ungheresi (Kecskére bízza akáposztát. 1001 magyar közmondás és szólás) – è divulgativo: un ausilio agli italiani per parlare l’ungherese, ma anche per parlare “all’ungherese”, conoscendo e usando modi dire e proverbi magiari. Ma il libro è anche un contributo per gli ungheresi (più numerosi) che vogliono parlare “all’italiana”. Una curiosità filologica, se si vuole, ma soprattutto – spero – uno dei fili per tessere legami tra i due popoli.

Ho cominciato per diletto e passione. Poi, grazie a guide competenti, ho visto crescere la qualità di questa piccola ma significativa opera: l’unica raccolta del genere finora pubblicata in Italia.
È stato un percorso difficile.
Gli editori italiani non mi sembrano avere ambizioni culturali al di fuori del sicuramente e immediatamente profittevole.
Gli studi accademici, il cui ruolo è indispensabile per salvaguardare lingua e cultura, a volte mi appaiono rinchiusi in torri d’avorio.
Così, per pubblicare e diffondere il libro bilingue di proverbi ungheresi, ho dovuto ricorrere all’auto-pubblicazione (self-publishing) e alla promozione fai-da-te (presenza a eventi, incontri pubblici, blog), accollandomi i relativi oneri.

È stato un percorso gratificante: un continuo apprendimento per me e un attenzione crescente al di là delle aspettative (v. manifestazioni d’interesse).
E così, anno nuovo, vita nuova.
È uscita infatti la 3° edizione del libro, rivista e corretta (gli errata-corrige di ciascuna edizione sono disponibili nella pagina dedicata al libro su questo blog).
Bene la diffusione del libro (oltre 350 copie), che si può acquistare in oltre mille librerie e nei principali bookstore online (€ 9,90, ma spesso il prezzo è scontato).
E bene il blog. Oltre ai 32 Paesi già elencati (post 10 novembre), le visualizzazioni sono arrivate anche da Slovacchia (Szlovákia), Nigeria (Nigéria) e Vietnam (Vietnam), sfiorando 5mila contatti in otto mesi di esistenza.
Il viaggio continua...

A motivare ulteriormente questo blog, arriva l’opinione dell’Economist, secondo cui le persone che parlano due lingue sono più flessibili perché possono applicare strategie diverse di pensiero (v. Anna Maria Testa su Internazionale del 17 dicembre 2013).
E il britannico Telegraph (19 giugno 2013) elenca 7 vantaggi del bilinguismo: più intelligenti; capacità multitasking; minor rischio di Alzheimer e demenza; migliore memoria; più percettivi; migliore capacità decisionale; miglioramento nella propria lingua.

giovedì 9 gennaio 2014

Incontro italo-ungherese a Veszprém.



Paesaggio montano - Masolino da Panicale (1435)
Come anticipato (post del 16 dicembre), incontrerò a Veszprém Paczolay Gyula, il maggior studioso ungherese di proverbi. Nella prestigiosa biblioteca provinciale (Eötvös Károly Megyei Könyvtár), il prossimo 30 gennaio presenterò al pubblico il mio libro bilingue di proverbi ungheresi, Kecskére bízza a káposztát. Ricordo che ho estratto la maggior parte di essi dalle raccolte online di Paczolay (in ungherese e inglese), che ora potrò conoscere e ringraziare direttamente. Pur avendo compiuto 83 anni, Paczolay continua la sua opera di raccolta di proverbi e modi di dire, non solo ungheresi, ed è stato così gentile da inviarmene un nuovo elenco (lo pubblicherò sul blog appena tradotto in italiano).
Grazie all’ospitalità della direttrice della biblioteca pubblica, Pálmann Judit, potrò così interloquire con il noto paremiologo magiaro sulle affinità culturali tra i popoli ungherese e italiano.
La raccolta di proverbi è stato un mezzo per avvicinare gli italiani a lingua e cultura magiare. Questo “incontro di culture e lingue ungheresi e italiane” (A magyar és olasz nyelvek, kultúrák találkozása) è un mezzo per avvicinare gli ungheresi all’Italia e contribuire a rafforzare i legami tra i due popoli.

Veszprém è un’importante meta turistica ungherese, situata nella regione del Transdanubio (Dunántúl) centrale, in posizione privilegiata tra il lago Balaton e i monti della Selva Baconia (Bakonyerdő), sorta di collegamento tra Alpi e Carpazi.
Ha oltre 60mila abitanti ed è capoluogo dell’omonima provincia. Vi hanno sede l’Università Pannonica, una delle più antiche d’Europa, l’Arcivescovado, istituito già nel 1009, e la più antica cattedrale dell’Ungheria, quella di San Michele.
La sua origine è assai remota (ci sono tracce del neolitico); la leggenda vuole che sia stata edificata su sette colli. Veszprém è gemellata con una decina di città, tra cui Portomaggiore (FE).
Una veduta medievale della città ce l’ha data il pittore Masolino da Panicale (1383-1440), che nel 1435 ha affrescato un Paesaggio montano, dove compare Veszprém. Questo primo esempio in Italia di paesaggistica autonoma (senza soggetti religiosi o mitologici) è ancora visibile nel Palazzo Branda a Castiglione Olona (VA).



martedì 7 gennaio 2014

Il carattere degli italiani e quello degli ungheresi.




Europe according to Italy (Yanko Tsvetkov)
“Not enough to be hungarian” (non basta essere ungheresi; ungh. magyarnak lenni nem elég). Era un cartello nel porto di Ellis Island (isolotto di New York), “porta” dell’America nella prima metà del ‘900.  Là gli immigrati del Vecchio continente erano sottoposti a strazianti ispezioni (il posto fu soprannominato “isola delle lacrime”) prima di essere accettati o rimandati ai paesi d’origine.
Quel cartello denota da una caratteristiche degli ungheresi: l’orgoglio.

Il linguista ungherese Fábián Pál (1922-2008), nel suo ancora valido Manuale della lingua ungherese (Tankönyvkiadó, 1970), afferma che tra italiani e magiari c’è “affinità di carattere”. L’amichevole dichiarazione deriva probabilmente da affinità letterarie (Rinascimento), nonché da congiunture storiche (Risorgimento), che hanno segnato percorsi comuni tra i due popoli.

Però, interpellando amici italiani e ungheresi sui rispettivi “caratteri nazionali”, raccolgo i seguenti pareri dove le affinità sembrano dissolversi.
Secondo la vulgata ungherese, gli italiani sarebbero estroversi e superficiali, mangiaspaghetti (ma anche mangiagatti), fanatici del calcio, un po’ mafiosi ...
Secondo la vulgata italiana, gli ungheresi sarebbero introversi e malinconici, troppo orgogliosi, sessualmente liberi, gran bevitori ...
Sono “giudizi” che ricalcano luoghi comuni (közhelyek) e cliché. È un modo di “fare di tutta l’erba un fascio” (ungh.: egy kalap alá vesz valakit valakivel, lett. “prende l’uno e l’altro sotto uno stesso cappello”), che non aiuta a capirsi.
È certo che storia, culture e religioni abbiano influenza sull’identità di una nazione (sull’immagine che ha di se stessa o che dà di sé alle altre nazioni), benché non sia chiaro in quale misura. Ed è indubbio che l’ambiente sociale produce comportamenti individuali: un ungherese su un’autostrada italiana schiaccia l’acceleratore, un italiano sull’auto in Ungheria rallenta in prossimità delle strisce; cioè entrambi capovolgono le loro abitudini fuori dal loro habitat.

Però, per rilevare similitudini o meno, sarebbe più corretto riferirsi a “usi e costumi” (szokások és hagyományok) delle due nazioni – pur variabili nel tempo – anziché al carattere (jellem) o alla personalità (személyiség).
Infatti, uno studio internazionale – pubblicato nel 2005 sulla rivista Science – dimostra che non c’è corrispondenza tra elementi di personalità reali e stereotipi nazionali. Questi ultimi possono dare informazioni su una cultura, ma spesso sono errati e alimentano pregiudizi negativi.
Nel 2009 l’UE ha messo in mostra a Bruxelles gli stereotipi nazionali, considerati barriere da abbattere.
Quindi non sembra razionale far derivare il carattere di una persona dalle caratteristiche della nazione cui appartiene, anche perché spesso le relative opinioni derivano da stereotipi (sztereotípiák) e pregiudizi (előítéletek) più che dall’osservazione diretta.

Pregiudizi, e persino stereotipi, sembrano parte ineliminabile (ma non immodificabile) di ogni cultura.
In quanto necessari: non essendo possibile avere conoscenza diretta di tutto e di tutti, ciascuno deve basarsi su giudizi espressi da altri (pre-giudizi, appunto)  per fare un minimo di affidamento su qualcuno.
In quanto utili: nel linguaggio politico come in quello pubblicitario, nella satira come nelle barzellette, “maschere” o “costumi” (jelmez) consentono facili e immediati riferimenti a comportamenti collettivi o individuali.
C’è chi ha dedotto il carattere delle persone dalla lingua che parlano, come il francese Étienne Condillac in un saggio del 1822. E chi, generalizzando, ha affermato “tale la lingua, tale la nazione”, come il danese Otto Jespersen nel 1955.
C’è chi si è divertito a disegnare le mappe degli stereotipi, come il designer bulgaro Yanko Tsvetkov che ha prodotto varie “cartine geografiche” che rappresentano satiricamente i pregiudizi.
Si sono scritti saggi sugli usi e costumi dei popoli.
In parte ancora validi, come nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani di Leopardi, sul decadimento morale degli italiani.
In parte obsoleti, come nello Spirito delle leggi di Montesquieu, sulla grande influenza del clima sul carattere dei diversi popoli.
Oggi il mondo ha bisogno di apprezzare il bello delle differenze tra le nazioni, i popoli, superando la tradizionale paura dello straniero. Occorrono strategie di convivenza. Non quella del vecchio colonialismo europeo, basata sull’assimilazione. E neppure quella del “nuovo mondo”, basata sulla fusione. Secondo Bruno Mazzara, nel libro Stereotipi e pregiudizi (il Mulino, 1997), serve una strategia di pluralismo culturale, che valorizzi le differenze come possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo. Tra persone di diversa cultura bisogna conoscersi meglio, aumentando le interazioni, sapendo però che – per evitare un possibile aumento delle incomprensioni e dell’ostilità reciproca – servono relazioni lunghe e approfondite, in un quadro interpretativo preventivo che inquadri le nuove conoscenze.

L’argomento di questo post, il carattere degli italiani e quello degli ungheresi, appare dunque tanto inesauribile quanto indeterminabile.

Ricordo che in Italia non mancano neppure cliché regionali: siciliani gelosi, abruzzesi e sardi teste dure, milanesi laboriosi, torinesi aristocratici, liguri avari, bolognesi mangioni, toscani arroganti, romani volgari, napoletani pigri, ecc.
I luoghi comuni sul popolo italiano (olasz nép) sono innumerevoli. Ne segnalo una sintesi, commentata, su un sito culturale della Rai (gli italiani cantano, mangiano pasta, vivono di arte, sono cattolici, devono fare i conti con mafia e terrorismo, sono appassionati di calcio, bevono il caffè, sono poveri).

Circa i luoghi comuni sul popolo magiaro (magyar nép), spero di avere commenti dai diretti interessati. Dalle mie poche conoscenze, posso dire che nella società ungherese ho riscontrato meno ipocrisia e bigottismo che in quella italiana. Forse perché gli ungheresi hanno avuto, grazie alla lingua, un’identità originale per circa un millennio e hanno conosciuto la Riforma protestante (oggi è il 20%,  ma nel XVI secolo quasi tutto il popolo magiaro fu convertito alla fede calvinista o luterana). Invece, il nostro “bel Paese” ha conosciuto solo la Controriforma.
Posso dire anche che uno stereotipo con cui gli italiani vedono l’Ungheria – “il paese delle porno-star”, secondo una delle cartine di Yanko Tsvetkov – è infondato. Deriva forse dalla sovrapposizione impropria di due diverse immagini: quella delle disinibite donne ungheresi (non, per questo, di “facili costumi”) e quella dell’ungherese Ilona Staller (in arte “Cicciolina”), famosa perché negli anni ’80 divenne la prima porno-star al mondo ad essere eletta in un Parlamento, quello italiano (comunque, la moralità della Staller appare superiore a quella di molti politici italiani).

-         Atlas of Prejudice

mercoledì 1 gennaio 2014

Proverbio/detto ungherese del mese (1009).



Nehéz a szívet megcsalni (difficile ingannare il cuore). Equivalente italiano (più drastico): il cuore non sbaglia. Sembra una frase da cioccolatini o da canzonette (“la mente mente, il cuore non mente mai”). Eppure rinvia a riflessioni più profonde sulla natura di emozioni (érzelmek) e sentimenti (érzések).
Cuore (ungh. szív) – contrapposto a mente (ungh. elme), che si richiama alla ragione – naturalmente è metafora universale per quel sentimento che si chiama “amore” (ungh. szerelem), parola concettualmente complessa e ambigua.
Complessa perché l’amore non è un’emozione primaria – come paura, rabbia,  gioia, tristezza, disgusto, sorpresa (in ungherese: félelem, düh, öröm, bánat, csömör, meglepetés) – bensì è un insieme di più sentimenti “a geometria variabile”.
Ambigua perché ne esistono varie specie, anche “patologiche”: dal narcisismo all’amore altruistico, dall’amore platonico alla passione carnale, dalle affinità elettive all’amicizia amorosa (ne hanno scritto in tanti: Austen, Baudelaire, Fromm, La Rochefoucauld, Leopardi, Pascal, Stendhal ecc.).
Ebbene, ci sono sentimenti ingannevoli, fino all’autoinganno. Ad esempio l’orgoglio, come rilevò Nietzsche: “’Io ho fatto questo’ dice la memoria. ‘Io non posso aver fatto questo’, dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine è la memoria ad arrendersi”.
Ci sono altri sentimenti, come quel forte sentimento di affetto per qualcuno che si chiama “amore”, che non ingannano (perlomeno se stessi).

Purtroppo pare molto difficile apprendere a connettere cuore e mente. Difficile mantenere costantemente autocontrollo e consapevolezza di sé e degli altri, necessari per una socialità ricca e creativa. Tale insufficiente competenza emotiva (capacità di riconoscere e gestire le emozioni) produce comportamenti –  in particolare tra i più giovani – che soggiacciono all’impulsività e al nervosismo (quando non alla violenza, fisica o verbale). Ciò avviene perché si è fatta insufficiente esperienza di soddisfacenti rapporti interpersonali, e perché non vengono appresi concetti e parole capaci di decifrare il mondo in cui viviamo.
Ci dà un consiglio Umberto Galimberti, secondo cui “l’educazione della mente e del cuore avviene con la frequentazione appassionata di tutti i sentieri che la vita dischiude e che la buona lettura sa indicare e descrivere” (D supplemento de la Repubblica, 15 dicembre 2013). Dunque, leggere buoni libri aiuta a vivere.