Il patrimonio
agroalimentare italiano è unico in assortimento e qualità. Perciò
in tutto il mondo c'è chi lo imita. È il fenomeno dell'Italian
sounding (IS): immagini,
marchi, denominazioni che fanno credere che un determinato prodotto
sia originario dell'Italia. Invece si tratta di copie, spesso di
bassa qualità. Secondo Carlo Calenda, viceministro allo sviluppo
economico, “il fenomeno è così esteso perché i prodotti
originali italiani sono introvabili nei punti vendita americani
mentre abbonda l'Italian sounding di Kraft e Unilever.”
Fenomeno
analogo ho riscontrato in Ungheria, ma è diffuso in tutta l'UE.
Addirittura
si stima che il valore dell'IS nel mondo sia di 54 miliardi l'anno,
circa il doppio del valore delle esportazioni agroalimentari
italiane, che comunque negli ultimi anni sono aumentate del 70%
(obiettivo 2020: 50 miliardi di euro).
Molti
denunciano tali imitazioni o contraffazioni come una truffa, anche se
non manca chi – come Piero Bassetti, presidente dell'Associazione
Globus et Locus –
ritiene che “chi copia i nostri prodotti ci fa un favore” in
quanto ambasciatori inconsapevoli del nostro modo di produrre e
vivere. Ma per
i produttori italiani è una perdita economica
nonché una svendita
dell''italianità'.
Comunque,
contri i falsi prodotti 'italiani', il governo ha varato un Piano
straordinario per il made in Italy, che prevede una campagna di
comunicazione e l'aumento sugli scaffali della grande distribuzione
dei prodotti originali del Bel Paese. Sarà adottato anche un segno
distintivo per i prodotti agroalimentari italiani (il marchio
“Italian Taste”).
Inoltre
l'Italia (supportata da Croazia, Francia, Grecia, Portogallo e
Francia) vuole ottenere dall'UE l'etichettatura di origine dei
prodotti nei settori: calzature, tessile, ceramica, arredo e
oreficeria.
C'è
però chi rema contro: la Lettonia, che ha la presidenza di turno
della UE, ha proposto che il regolamento consumatori preveda il paese
d'origine solo per i settori calzature e ceramiche (solo quelle per
alimenti), ed è appoggiata da Germania, Gran Bretagna, Svezia,
Danimarca, Belgio Olanda e Irlanda.
Il
pericolo di una deregolamentazione che danneggi i prodotti “Made
in” e che inganni i consumatori è evidenziato dalla Coldiretti,
che teme questo pessimo esito se andrà in porto il TTIP, accordo di
partenariato transatlantico per commercio e investimenti tra Usa e
UE. Se così fosse, i consumatori europei potrebbero veder aumetare i
prodotti taroccati (provenienti in particolare dali Stati Uniti) nei
punti vendita.
Comunque,
amici ungheresi, se cercate il Made in Italy dovrete cercare il
marchio “Italian taste”, un'indicazione molto utile (al di là di
qualche retorica patriottarda).
Infine,
un flash sull'andamento delle esportazioni
italiane. Sace
ha presentato il rapporto 2015/2018 che ne prevede un incremento.
In
particolare, vengono indicate le maggiori opportunità di crescita in
39 Paesi (i tre quarti dell'export italiano). Fatto 100 l'indice di
opportunità massima, ai primi posti ci sono: Arabia Saudita (85),
Regno Unito (79) e Germania (78). L'Ungheria è al 24° posto (64),
dietro Slovacchia (70), Turchia (70) e Polonia (68), ma davanti alla
Russia (60).
Dallo
stesso rapporto (consultabile in rete, insieme alla mappa mondiale)
si ricava che la quota di mercato dell'export italiano in Ungheria è
del 4,4%, dietro alla Germania (25,2%), ma davanti a Francia (4,1%) e
Spagna (1,5%).
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