lunedì 2 febbraio 2015

Proverbio/detto ungherese del mese (1022).

A megosztott bajt könnyebb elviselni, tradotto dall’ungherese: “il guaio condiviso è più leggero da sopportare” (baj, oltre che con “guaio”, è traducibile anche con “male” o “dispiacere”). È quasi didascalico: allude a un peso che ci opprime e di cui ci possiamo alleggerire ripartendolo in parte su qualcun altro.
L’equivalente italiano è: mal comune mezzo gaudio. Meno didascalico, ma fulminante, attribuito a Cicerone (in latino: non tibi hoc soli).
È un proverbio consolatorio: la certezza che si è tutti un po’ uguali, anche nelle debolezze, ci rassicura.
Ma è anche prescrittivo: invita le persone a stare vicino a chi ha subito un dispiacere. È un “placebo psicologico” che può essere efficace, perché può aumentare la consapevolezza di sé e compassione (condivisione della sofferenza) verso l’altro.
Ha anche un lato comico. Ricordo uno sketch televisivo: lui e lei nel letto, lui dorme tranquillo, lei no, si rigira agitata tra le lenzuola; poi lei sveglia lui e gli racconta del cruccio/preoccupazione/tormento che l’affligge; ecco che ora lei dorme tranquilla, mentre lui si rigira nel letto.

Gli psicologi, con qualche cautela, confermano le conclusioni di tale precetto della “saggezza popolare”.
Secondo l’australiano, di origine ungherese, Joseph Paul Forgas, “la compagnia di persone che si trovano in una situazione [dolorosa] simile alla nostra è particolarmente efficace nel ridurre l’ansia”, anche se “l’eventualità che la presenza delle altre persone possa farci sentire meglio dipende anche dalla situazione specifica” (Comportamento interpersonale. La psicologia dell’interazione sociale, Armando, 1989, traduzione di Bruna Zani e Elvira Cicognani).
Cinzia Tani e Rosario Sorrentino sostengono che “il ‘mal comune mezzo gaudio’ ancor oggi rimane una forma di terapia praticata. Condividere lo stesso dolore rende più sopportabile e può a volte dare un momentaneo sollievo” (Panico, Mondadori, 2008).

Attenzione, però, all’atteggiamento auto-assolutorio (soprattutto tra i giovani), che giustifica inerzia e fallimenti: “va male agli altri; se va male anche a me, non è conseguenza delle mie scelte ma è destino”.

Nel discernere ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è, occorrerebbe sforzarsi di individuare responsabilmente le alternative al proprio comportamento e alle proprie scelte, singolarmente ma anche collettivamente. Bene comune, massimo gaudio.

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