Italia, Francia e Spagna sono tra
i Paesi agli ultimi posti per l’attenzione alle altre culture.
È l’opinione del linguista
inglese Richard Donald Lewis, il cui libro When
cultures collide (Brealey, 2005) – che studia le differenze culturali e dà
consigli per migliorare la comunicazione nel busieness internazionale – è stato
tradotto in varie lingue, ma non in quelle dei tre Paesi citati.
Probabilmente tali paesi
mediterranei si sentono depositari di una grande eredità culturale, che così fa
ombra a tutte le altre: un atteggiamento di superbia non solo disdicevole ma
anche autolesionista.
L’attenzione agli altri, infatti,
non solo rende più simpatici e tolleranti, ma facilita gli scambi culturali e
commerciali. E facilita gli affari. Se ne accorgono sempre più imprese, in
particolare quelle che esportano. Se non si adatta la comunicazione alla
cultura locale, la merce resta invenduta. Lo rivelano vari studi e ricerche
inquadrate sotto la voce “cross culture”, in italiano “interculturalità” (ungh.
interkulturalitás).
Non è solo un problema di lingua,
ma di diversità culturali (e valoriali) e anche di civiltà. Ad esempio, tra
Ungheria e Italia ci sono varie differenze culturali, ma la condivisione di una
stessa civiltà, la cosiddetta civiltà “occidentale”, profondamente diverse
dalle civiltà asiatiche, come quelle di Cina e Giappone.
Occorre premettere che l’interculturalità
è un’azione (attiva) che prende piede con difficoltà, pur se necessaria: essa
va al di là della tolleranza tra diversi, è confronto (anche critico) e
scambio, che concepisce le diversità culturali come un valore.
Invece, la “multiculturalità” (multikulturalitás) è una condizione
(passiva) ormai diffusa in tutto il mondo, che spesso si accompagna a società
multietniche.
Una buona competenza
interculturale si caratterizza per: pazienza e comprensione per gli altri;
consapevolezza sui propri limiti conoscitivi; preparazione a situazioni
interculturali (liberandosi da pregiudizi e stereotipi); predisposizione alla
cooperazione tra diversi; forte senso dell’identità propria e rispetto di
quella altrui.
Capire usi e costumi di altri
popoli (cioè acquisire competenze interculturali e sviluppare empatia verso gli
starnieri) è sempre più importante, soprattutto negli scambi commerciali. Del
resto, la propria cultura è riconoscibile veramente solo dal rapporto con le
altre culture.
Proviamo dunque a fare un
confronto tra Italia e Ungheria (triangolato con la Germania), nella cultura e
negli affari.
Guardano la scarsa diffusione di
corsi e libri sull’argomento, gli italiani sembrano poco interessati a questi
aspetti e si affidano più alla spontaneità che all’organizzazione, anche negli
affari. Comunque, secondo la ricercatrice Caterina Cerutti, che ha studiato il
partenariato commerciale italo-tedesco, italiani e tedeschi si compeltano a
vicenda, i primi caratterizzati dall’eloquenza (creatività, inventiva) e i
secondi dalla precisione (affidabilità).
A livello culturale, grande è
l’attenzione alle diversità regionali, mentre la curiosità verso le altre
lingue e culture è limitata da un complesso di superiorità (la “genialità”
italiana, il “Bel Paese”).
Gli ungheresi, invece, specie
negli affari, sembrano più attenti alle altre culture. Hanno preso dai loro
vicini (e fino a un secolo fa, amici-nemici alleati) austro-tedeschi un po’ di
capacità di pianificazione e di orientamento al risultato. Secondo Lewis, però,
per ottenere successo gli ungheresi seguone strade diverse dai tedeschi: questi
sono freddi e calcolatori, disciplinati e programmati; i magiari invece sono
più fantasiosi e indisciplinati, non sempre coerenti.
L’attenzione alle altre culture,
però, si ferma davanti ai pregiudizi verso le minoranze interne. In
particolare, appaiono oscurati i rom (ungh. cigány),
statisticamente il 2% della popolazione (sulla base di autodichiarazioni
influenzate dalla paura di discriminazioni), ma alcune stime li fanno salire a circa
il 10%: una presenza in gran parte stanziale (più che nomadi, i rom sono dunque
un popolo senza nazione).
Quali differenze tra italiani e
ungheresi?
Prendo in prestito due macrocategorie
della sociologia anglosassone: Low
Contest Culture e High Contest
Culture, proposti nel 1976 dall’antropologo Edward T. Hall.
Alla prima categoria appartiene
il tipo di comunicazione dove è più importante il contenuto; alla seconda
categoria, quella dove è più importante la relazione. Non che una sia migliore
dell’altra: dipende dalle situazioni. Se si stanno trattando affari, il rilievo
andrebbe dato al contenuto degli accordi. Se coltiviamo uno scambio culturale,
la relazione è l’aspetto decisivo.
I paesi del nord Europa e quelli
anglosassoni sono classificati tra quelli Low
Contest Culture. I paesi del sud Europa, del sud Amercia, ma anche
dell’estremo oriente (Cina, in particolare) rientrano tra quelli High Contest Culture. Non si tratta
certo di raggruppamenti omogenei: all’interno di essi abitudini, etichetta,
riti e tabù possono essere molto diversi, o addirittura avere significati
opposti.
Comunque, italiani e ungheresi
appartengono entrambi al modello High
Contest Culture e le differenze, mi pare, riguardano aspetti marginali: gli
ungheresi sono più attenti alle forme e più composti (almeno inizialmente)
nelle relazioni interpersonali; gli italiani abbondano in comunicazione non
verbale (gesti, prossimità) e spesso trascurano la chiarezza nel contenuto
comunicativo.
A proposito di interculturalità, azzardo
una conclusione.
In Ungheria, la conoscenza delle
lingue straniere, e relative culture, è più sviluppata, mentre l’attenzione
verso le diverse culture all’interno appare insufficiente e segnata da
pregiudizi (oltre che da rivalità con i popoli confinanti).
Il contrario in Italia: risultano
carenze nell’azione interculturale verso l’esterno, che invece è ben presente verso
l’interno, grazie alle forti identità regionali (a volte, in competizione).