Giovani 25-34 anni che vivono in famiglia. |
I dati statistici sembrano
avvalorare tale immagine: il 46,6% dei giovani italiani tra i 25 e i 34 anni
vive ancora con mamma e papà (ungh. anya
és apa), mentre nei paesi
scandinavi siamo al 4%.
Ma le stesse fonti (dati
Eurostat) rilevano che ben il 43% dei giovani ungheresi resta nella famiglia
(ungh. család) d’origine. Quindi
anche gli ungheresi sono mammoni?
In realtà, molti sono i fattori
che influenzano il comportamento dei giovani, anche culturali. La
disoccupazione giovanile (per di più, in Italia, senza reddito minimo per chi è
alla ricerca del primo impiego) è uno dei più rilevanti. Poi c’è la difficoltà
di trovare case in affitto a prezzi convenienti.
L’ingresso nella vita adulta
dovrebbe avvenire “naturalmente” al termine degli studi, con l’ingresso nel
mondo del lavoro e l’uscita dalla famiglia d’origine. Nel nord Europa ciò
avviene agevolmente, in diversi casi anche prima di concludere la formazione
scolastica, e in ciò giocano un peso i fattori socio-culturali.
La situazione economica di Italia
e Ungheria, che hanno comunque un costo della vita decisamente diverso, sono
simili: alta disoccupazione, bassa crescita. L’Ungheria di recente ha avuto
qualche indicatore economico positivo (anche grazie alle oscillazioni del
fiorino ungherese), ma la crisi grava ancora. Addirittura la popolazione
ungherese, diversamente da quella italiana e degli altri Paesi europei, è
diminuita in conseguenza della scarsa immigrazione e dell’aumento
dell’emigrazione (fenomeno insolito). Quindi anche i giovani ungheresi hanno
difficoltà a trovare lavoro in patria. A ciò si aggiunge un mercato immobiliare
rigido, visto che prevalgono nei piccoli centri le unità abitative monofamiliari.
Così, la permanenza in famiglia diventa una scelta obbligata, in Ungheria come
in Italia (dove la precarietà del lavoro è molto più alta).
I giovani di oggi (tra cui
crescono i Neet, cioè chi non lavora
e non studia) sono destinati a “mantenere”, come le generazioni precedenti, la
popolazione inattiva: bambini e anziani. Ma, mentre i primi diminuiscono, i
secondi aumentano in proporzione maggiore, mettendo in crisi i sistemi di welfare, che si tende a trasformare in workfare, dove si è costretti ad
accettare un lavoro (se lo si trova) a qualsiasi condizione.
L’aumento esponenziale della
produttività del lavoro (grazie alle nuove tecnologie) nel Novecento avrebbe
dovuto portare alla diminuzione drastica dell’orario di lavoro, assieme alla
promessa della “piena occupazione”, e all’aumento del tempo disponibile per
prendersi cura di sé (salute e relazioni interpersonali) e dell’ambiente.
Invece, così non è stato: la conseguenza è un aumento delle disuguaglianze: il
Pil dei Paesi c.d. sviluppati è diventato più basso, ma la ricchezza
(patrimoniale e, soprattutto, finanziaria) è diventata più alta, producendo
così maggiore povertà.
Altro che mammoni! Qui ci sarebbero da ripensare i modi di vivere,
mettendo al primo posto non il Pil ma i diritti umani e dell’ambiente, per
diffondere il benessere. Come diceva Henry Ford: “c’è vero progresso solo
quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”.
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