Márai Sándor, in un disegno di Tihanyi Lajos (1924) |
Morire, suicida, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino sembra una
beffa del destino. Sì, perché Márai Sándor
(1900-1989) emigrò dall’Ungheria nel 1948 (recandosi prima in Svizzera e poi in
Italia, dove tornò nel periodo ’68-’80) a seguito di contrasti col regime socialista.
Negli anni Ottanta gli proposero di tornare in Ungheria, ma rifiutò e restò
a San Diego (USA), dove si era stabilito la prima volta alla fine degli anni
Cinquanta.
Nel ’17 aveva fondato il Movimento
Clandestino degli Scrittori Comunisti e fu poi in contrasto con gli
emigranti che nel ’19 abbandonavano l’Ungheria per sfuggire alla breve
esperienza della “repubblica sovietica
ungherese” di Béla Kun. Poi, da antifascista, non aveva risparmiato critiche al
regime filonazista di Horthy Miklós.
Insomma, Márai si sentiva emarginato dai suoi compatrioti per le sue idee,
anche sotto diversi regimi, ma all’estero si sentì sempre uno straniero
immigrato, e continuò a scrivere nella sua lingua madre.
Fu in contrasto col figlio János, che scelse di americanizzare il suo nome.
La morte della moglie per cancro, seguita da quello dello stesso János, lo
prostrarono fino a decidere di togliersi la vita nel febbraio ’89 a San Diego.
Nel 1990 l’Ungheria (dove già le sue opere erano note, anche se
clandestinamente) riconobbe ufficialmente il valore della sua opera e in suo
onore ogni anno viene assegnato un premio letterario.
L’autobiografia di Márai si ritrova nelle sue opere, quasi una settantina,
di cui oltre un terzo romanzi, quasi tutti poi pubblicati in Italia (i primi
due già nell’anteguerra, da Baldini & Castoldi, con traduzione di Filippo
Faber: “Divorzio a Buda” e “L’amante del sogno”). Nasce a Kassa (l’attuale
Košice, in Slovacchia) e completa gli studi in Germania. Inizia a scrivere come
gioralista, prima a Berlino e poi a Parigi, e nel ’17 pubblica il suo primo
libro di poesie “Il libro dei
ricordi” (Emlékkönyv). Scrive anche
qualche opera teatrale. Il successo arriva con il suo settimo romanzo “Confessioni di un borghese” (égy polgár vallomásai) del ’34.
Márai, uno dei più eminenti scrittori del XX secolo, in Italia fu
riscoperto solo nel 1998, grazie alla pubblicazione da parte di Adelphi del
romanzo “Le braci” (A gyertyák csontig égnek del 1942), tradotto
da Marinella D’Alessandro.
Le sue opere raccontano, con una certa nostalgia, il tramonto della civiltà
danubiana e i danni inferti al vecchio continente dalle crisi dei valori
morali, nonché dalla tragedia materiale della guerra. Rappresentano una
letteratura d’inchiesta, per le minuziose descrizioni delle realtà (che gli
costarono censure nel regime comunista), ma più che raccontare storie d’azione,
analizzano l’animo dei personaggi: spesso si tratta di romanzi psicologici.
La Rozsnyói, ungherese di nascita e italiana d’adozione, è docente all’università
di Bologna e si occupa da anni dei rapporti storico-letterari tra Italia e
Ungheria, è autrice di diversi saggi, nonché traduttrice di autori magiari. È dunque
la persona giusta per parlare della vita e delle opere dello scrittore
ungherese più conosciuto in Italia e diventato un classico della letteratura europea
del XX secolo.
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