Gigliola,
affezionata follower di questo blog, e di cui ho raccolto una testimonianza nel
post del 20 ottobre ’14 sull’”indimenticabile ‘56”, aggiunge altri particolari
sulla sua esperienza, che pubblico integralmente.
Devo rettificare, pur ringraziandola, il suo accenno a me, che semplicemente partecipai, con quasi metà della classe, alle manifestazioni per l’Ungheria, incurante di certi volti imbarazzati o immusoniti che vedevo ai lati della strada e di qualche imprecazione seguita dal grido “viva l’armata rossa!”, oppure – a scuola – di qualche rimbrotto o sarcasmo di alcuni insegnanti da sempre in vena di proselitismo.
In una di quelle sere di nebbia passai per la via,
solitamente piuttosto frequentata, dove aveva sede l PCI. Era quasi deserta,
solo qualche finestra illuminata. Ma dal palazzo di fronte, a finestre aperte
nonostante il freddo, scendeva una cascata di note suonate al pianoforte: era
una “polonaise” di Chopin, quella chiamata Rivoluzione.
Era stata infatti l’antica amicizia tra Polonia e Ungheria, con ancora l’eco
della rivolta operaia di Poznan in giugno, ad accendere ancor più il desiderio
di libertà non solo degli studenti e degli intellettuali, ma della società
ungherese nella stragrande maggioranza (i Consigli operai lottarono fino a fine
novembre). A casa, dopo il giornale radio da tutti ascoltato con grande
partecipazione emotiva, mi sincronizzavo sui 550 MHz di Radio Budapest,
disturbatissima, ma da cui sentivo ripetere spesso tre o quattro parole, che
poi – studiando la lingua – ho individuato come: “Itt szabad Kossuth radió” poi
“Figyelem! Figyelem!”. Non capivo nulla, ma almeno mi sentivo partecipe.
La mattina all’alba del 4 novembre sentimmo al giornale
radio la notizia dell’attacco a Suez e dell’attacco a Budapest, seguito dall’appello
di Nagy, poi dalla musica grave e solenne dell’Inno nazionale.
In quelle stesse ore un uomo, rimasto solo nel palazzo del
Parlamento assediato dai carri armati sovietici, stilava un documento rivolto
all’Onu per denunciare quanto stava avvenendo. Entrò una truppa di soldati
russi. Lo videro, ma cedettero che fosse un qualsiasi impiegato e continuarono
l’occupazione dell’edificio.
Quell’uomo, rimasto al suo posto di ministro del governo
Nagy, era Bibó István, poi arrestato e condannato all’ergastolo, poi liberato
con amnistia mi sembra nel ’63.
Di quell’amnistia tuttavia beneficiarono soprattutto le
personalità più note anche all’estero, come lo scrittore Déry Tibor, mentre
moltissimi rivoltosi restarono incarcerati. Per questi Bibó scrisse una lettera
da far pervenire a Jean Paul Sartre tramite un poeta francese amico. Cercò a
lungo chi potesse assumersi la responsabilità e il coraggio di portare a
lettera in Occidente e un giorno d’estate giunse con il figlio e la nuora a
Sajkod, a casa del suo amico, il grande scrittore Németh László. Quasi
certamente Bibó aveva saputo, da Németh stesso o da qualcuno della famiglia,
della presenza di una persona fidata, un’italiana che in quei giorni era ospite
dello scrittore. E l’italiana, giunta la sera, fu avvicinata con un pretesto dalla
nuora che, lontano dagli altri, le chiese se sarebbe stata disposta a
rischiare, chiedendole di leggere bene la lettera prima di accettare e di darle
una risposta a Budapest, prima di partire. L’italiano non esitò.. e l’impresa
riuscì.
Lei, caro József, ha certamente già capito tutto [la persona
fidata era Gigliola, ndr]. Putroppo
Sartre non scrisse e non disse mai niente. Di tutto questo scrisse anni fa su Micromega lo storico Federigo Argentieri,
autore di L’ottobre ungherese e La rivoluzione calunniata, uscito anni
fa come supplemento – pensi un po’ – dell’Unità,
poi rieditato da Reset. Con
Argentieri non ho più rapporti da anni, ma è uno studioso preparato sulla rivoluzione.
A proposito: il regime la chiamò ellenforradalom
(controrivoluzione), poi az 56-os események
(i fatti del ’56) e poi qualcuno osò un sajnalatos
események (deplorevoli eventi).
La mia rettifica per l’accenno a me fatto nel suo articolo riguarda
l’incomprensione e l’isolamento che mi sarebbe stato inflitto. No, per la
semplice ragione che bisogna appartenere a qualcosa per essere isolati e io non
sono mai appartenuta a nessuna formazione politica, tantomeno comunista, ma chi
mi conosce sa che rispetto le opinioni altrui come esigo che siano rispettate
le mie.
Mi ritrovo nella conclusione del suo articolo e riconfermo il
mio ideale di libertà, per il quale sono lieta di aver fatto qualcosa. Tutto
qui.