Babonaságból fordítva veszi fel a harisnyáját, dalla superstizione mette
le calze al rovescio. Più che un modo di dire questa espressione ungherese si
riferisce a un’usanza scaramantica per scongiurare la malasorte.
La superstizione (babona) non mi sembra molto diffusa tra
il popolo ungherese, tranne che nella forma della scaramanzia (ráolvasás). Una situazione simile al
centro-nord italiano, mentre nel sud Italia le forme di superstizione (spesso
mascherate da religiosità) appaiono più diffuse.
Tornando in Ungheria, se succede di
indossare un vestito al contrario lo si lascia così, onde favorire la buona
sorte. Nel sud Italia, invece, tale svista è premonitrice di un prossimo
invito.
Un’altra usanza scaramantica
ungherese è quella di dare una moneta a chi dona coltelli (possono ferire!) per
scongiurare eventuali jettature. Usanza simile è diffusa in Italia, dove –
quando si ricevono in dono fazzoletti (si possono usare quando si piange!) –
bisogna “pagarli” simbolicamente con una moneta. Per non parlare poi degli
innumerevoli “portafortuna” (szerencsehozó).
Non ci sono molte ricerche
etnologiche su tali credenze popolari (considerare una cosa vera, senza
evidenza reale, perché fa parte del “senso comune”) che, probabilmente, aiutano
ad esorcizzare la paura di forze oscure che influenzerebbero il nostro destino.
Tali credenze si diffondono oralmente e spesso si rintracciano nei riti
religiosi o nelle favole; queste ultime hanno un’importanza notevole nella
cultura popolare ungherese.
Rispetto a proverbi e modi di dire,
il lato per così dire razionale e relazionale della “sapienza popolare”, le
usanze sopra descritte rivelano invece il lato oscuro, irrazionale e nascosto,
dell’agire umano. Non assegno un valore negativo a ciò, ma solamente ne
sottolineo l’eccesso di razionalizzazione di chi non si rassegna
all’inafferrabile “caso” (sors), ma ha
bisogno di personificare gli eventi negativi (o quelli positivi) nello
jettatore o nel demone maligno, oppure nella dea Fortuna (Szerence-istennő), illudendosi così di poterli combattere o
blandire.
Forse è possibile tracciare un
confine tra superstizione e scaramanzia, considerando la prima come
l’assoggettamento completo a forze sovrannaturali insondabili, e la seconda come
una forma di (auto)rassicurazione. Si tratta, in entrambi i casi, del tentativo di
immaginare un qualche ordine in ciò che che appare solo come caos determinato
dal caso. Piuttosto che accettare la legge (?) di quest’ultimo, molte persone
preferiscono affidarsi al rassicurante (ma anche deresponsabilizzante) cieco
destino (vak végzet).
Credere a cose di cui non è certa
l’esistenza non è privo di conseguenze concrete (consapevoli o no): influenza,
nel bene e nel male, la nostra percezione della vita e i nostri comportamenti,
anche solo in forma di autosuggestione.
Questo mondo “altro”, abitato da
forme di vita non umane (fate e folletti, ma anche sciamani e streghe ecc.), ci
rimando l’eco di un immaginario simbolico pre-cristiano ed euroasiatico – nella
cultura ungherese come in quella italiana – che sarebbe un peccato cancellare
dalla memoria.
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