Partenza per
la Puszta, Théodore Valerio (1853)
|
Esiste il “mal d'Ungheria” o,
meglio, cos'è?
“Mal d'Hongrie”, malattia epigastrica contagiosa, così
chiamata perché individuata nel 1566 in Ungheria tra le fila dell'esercito
imperiale di Massimiliano II (intervenuto per opporsi all'invasione turca), ricorda
l'Encyclopédie.
No, non è questo che interessa.
No, non è questo che interessa.
L’espressione italiana ha un uso
diverso, che richiama quella più nota di “mal d’Africa” (che ha una
corrispondenza solo in francese: mal d’Afrique),
ma non ha equivalenti in altre lingue. È simile alla saudade per il Brasile: una forma di malinconia, un sentimento
simile alla nostalgia, ma non rivolta come questa al passato bensì vissuta al
presente e proiettata nel futuro (il musicista brasiliano Gilberto Gil definsce
ogni saudade come “la presenza
dell’assenza”). Insomma, un’espressione letteralmente intraducibile.
In ungherese, “mal d’Ungheria” si potrebbe dire vágyát Magyarországra (desiderio d’Ungheria) ma è un’espressione rarissima: la utilizza il poeta Arany János (1817-1882), nel poema epico Az utolsó magyar (L’ultimo ungherese). E poi c’è la “nostalgia di casa” (honvágy), ma questa riguarda solo chi è lontano dal proprio paese.
In ungherese, “mal d’Ungheria” si potrebbe dire vágyát Magyarországra (desiderio d’Ungheria) ma è un’espressione rarissima: la utilizza il poeta Arany János (1817-1882), nel poema epico Az utolsó magyar (L’ultimo ungherese). E poi c’è la “nostalgia di casa” (honvágy), ma questa riguarda solo chi è lontano dal proprio paese.
Alle difficoltà di assegnargli un
significato equivalente nelle diverse lingue, si somma quella di un
utilizzo in contesti – e con
significati – diversi.
Dunque partiamo dall'uso più
comune: espressione di nostalgia per l'Ungheria, che può prendere chi l'ha
visitata. Derivante forse dall'attrazione per un esotismo di “casa nostra” (una
lingua non indoeuropea nel cuore dell'Europa), o forse dall'ammirazione per
l'orgoglioso senso di alterità magiaro. E, comunque, frutto di un arricchimento
culturale e umano, come già sosteneva Fosco Tempesti nella premessa al libro da
lui curato, Lirici ungheresi
(Vallecchi, 1950). Tempesti ricordava anche come una quindicina di anni prima
(quindi, intorno al 1935) “la letteratura
ungherese richiamava l’interesse di gran parte del pubblico di lettori, sia in
Italia come in altri paesi”, e sosteneva che la letteratura magiara “è certo tra le più ricche e più interessanti
delle letterature minori”.
Ma già allora, come ancora oggi, ci
sono turisti che inseguono in Ungheria solo i luoghi comuni del “divertimento”
(a cominciare dalle facili avventure). Nelle sua guida Budapest (1931), il giornalista italo-ungherese Ignazio Balla
sottolinea le due “specialità” celebri nel mondo che soprattutto interessano
gli stranieri: “la famosa musica
tzigana... e le belle donnine della capitale magiara”.
Un'altra interpretazione del mal
d'Ungheria è quella di un viaggio nella memoria di una diaspora alla ricerca
delle proprie radici. Lo testimoniano diversi libri.
Ricordo quello dell'italiana Anna Maria
Háberman, Labirinto di carta: una
ricostruzione delle vicissitudini dei propri familiari (v. post del 20 gennaio
2014), in particolare del padre ungherese, sfuggito nel 1933 alle persecuzioni
antiebraiche.
Oppure l'ultimo della tedesca
Zsuzsa Bánk, presentato così sulla Stampa: “La magia del nuoto per
dimenticare il mal d'Ungheria” (Il nuotatore, Neri Pozza, 2014; traduzione
di Riccardo Cravero), i cui genitori sono fuggiti dall'Ungheria nel 1956.
Il 1956, appunto, segnala un altro,
anzi altri due modi opposti di utilizzare l'espressione “mal d’Ungheria”. Per alcuni,
come Indro Montanelli – che seguì la rivolta ungherese da corrispondente del Corriere della Sera – significava vicinanza alla “sublime pazzia” degli
studenti di Budapest, in antitesi alle realpolitik di destra e di sinistra. Per
altri, era un’etichetta discriminatoria – il socialista Gaetano Arfé la defini
“espressione ignobile” (Il Ponte, n.
2, 1960) – verso quei comunisti non allineati che non approvarono l’invasione
sovietica che represse la rivolta (e che si allontanarono dal Pci).
Ancora prima, a metà degli anni ’30
dello scorso secolo, come ricorda il Tempesti, la letteratura e la drammaturgia
magiara in Italia esercitava un forte fascino. Forse inspiegabile o forse
derivante da una sorta di moda inaugurata dalla politica d’amicizia tra i due
Paesi (il Patto del 1927 e la Convenzione culturale del 1935), cui diede
impulso la rivista italo-ungherese Corvina.
Fascino trasmigrato anche nella settima
arte espressa da Cinecittà. È di quell’epoca il “cinema dei telefoni bianchi”,
definito poi anche “commedia all’ungherese”, poiché – pur essendo di produzione
italiana – si ispirava ad autori teatrali ungheresi. Era anche un modo, per
alcuni registi, di affrontare temi sociali nell’Italia fascista, senza
incorrere nella censura del Minculpop, data l’ambientazione ungherese (o in
paesi immaginari) dei film. Il critico Pietro Bianchi individua la malattia del
“mal d’Ungheria” anche in film di Vittorio De Sica, come Maddalena zero in condotta (1940) o Teresa Venerdì (1941). Lo
stesso Bianchi fa però notare che, se tale malattia c’era stata, ormai si era
in convalescenza senza più l’intenzione “di
andare ad appioppare ai nostri amici ungheresi le sciocchezze che si accettano
come italiane” (cit. da L’occhio di
vetro, ed. Il Formichiere, 1979). La più riuscita contaminazione
italo-ungherese nel cinema è del regista austriaco Max Neufeld (che lasciò la
Germania nazista per le sue origini ebree) nel film Mille lire al mese (1939), girato a Roma ma ambientato a Budapest.
Sulla “fortuna” della letteratura
ungherese in Italia si può leggere in rete un articolo di Ilona Fried, Il Paese della Cuccagna, dove si
ricordano i due ingredienti essenziali del romanzo e del teatro ungheresi tra
le due guerre: divertimento e miseria, una depressione post-sconfitta – acutizzata
dai problemi sociali – mescolata all’umorismo nero.
Ma forse è già nell'Ottocento che nasce il mal d'Ungheria.
Già nel XVIII secolo, a seguito del romanticismo, si afferma
il tema estetico del voyage pittoresque.
Erede del Grand Tour settecentesco (mete la Grecia e,
soprattutto, l’Italia), il viaggio esotico diventa la realizzazione del
“desiderio d'Oriente” della nuova borghesia in ascesa (“orientalismo”
nell'arte), conosciuto tramite le esposizioni universali, nonché altra faccia
del colonialismo (Africa, Medio Oriente).
In questo panorama, i moti risorgimentali del 1848 e le
gesta – ancor prima della poesia – di Petöfi Sándor fanno (ri)scoprire l'Ungheria
agli altri europei. Tra gli altri, il pittore francese Théodore Valerio
(1819-1879) rappresenta il patchwork etnografico del bacino carpatico in
acquarelli e stampe antropologiche (tra cui i ritratti degli zingari, definiti
i “Mohicani d'Europa”). Valerio pubblicherà anche il racconto dei suoi viaggi
nelle terre danubiane (Essais ethnographiques sur les populations hongroises,
1858), pubblicato parzialmente in Italia su FMR
(n. 88 del 1991) assieme agli affascinanti acquarelli sotto il titolo appunto
di “Mal d’Ungheria”. Altro reportage noti sono quelli di Gabriel Von Pronay (Skizzen aus dem Volksleben in Hungarn,
1854) e di Victor Tissot (La Hongrie, de
l’Adriatique au Danube, 1883).
Tornando al leggendario Petöfi (sulla sua morte, Carducci
scrisse: “Sparì un bel Dio della Grecia”), è indubbio che la lotta per la
libertà e l’indipendenza di italiani e ungheresi contro l’assolutismo asburgico
ha favorito stretti rapporti politici e culturali in cui sono maturati
sentimenti di profonda amicizia e un desiderio d'incontro tra i due popoli che
peridicamente si rinnova.
Questi, in estrema sintesi, gli
antefatti di una “magiarofilia” presente in Italia (e non solo).Ci sono
italiani che – pensando agli ungheresi – condividono la definizione di “kis nép, nagy lélek” (piccolo popolo,
grande anima). Tale espressione fu utilizzata dallo scrittore ungherese Németh
László (1901-1975) nel dramma in versi Négy
próféta (Quattro apostoli): una rilettura del Vecchio Testamento dove il
popolo ebraico crede nella possibilità di crescere nonostante le avversità. Una
metafora della condizione dei magiari in varie fasi storiche, che viene così
dipinta dal Balla nella guida già citata: “Sempre
martire il popolo ungherese, ti dico, sempre sofferente per una dominazione
straniera durata troppo a lungo. Sono secoli che la magnifica Reggia è deserta.
Non c’è un re: c’è a regnare, la Sacra Corona di Santo Stefano dalla croce
piegata e piagata, simbolo tuttavia di insopprimibile grandezza”.
Penso agli italiani che ho
conosciuto dopo aver aperto questo blog. Come Gigliola Spadoni, la quale per
decenni si è appassionata alla cultura magiara, raccogliendo anche centinaia di
libri che poi ha donato al Consolato ungherese di Bologna (e ora mi ha donato
le copie di due introvabili libri di Fosco Tempesti). Penso ad Anna Rossi,
infaticabile organizzatrice dell’Associazione italo-ungherese del Triveneto.
Penso alla stessa Anna Maria Háberman, che ha raccolto un’estesa documentazione
sulle sue radici ungheresi e, dopo i primi due libri, ne sta preparando un
altro.
E penso agli ungheresi
naturalizzati italiani, come Melinda Tarr, che a Ferrara dirige la rivista
bilingue Osservatorio Letterario.
Oppure all’ungherese Borsányi Katinka, che vive in Italia da una dozzina d’anni
e scrive poesie in italiano, anche per avvicinare le civiltà dei due popoli.
E penso ad altri italiani, che ho
incontrato durante la presentazione del mio libro bilingue o che mi
hanno scritto al blog, che vorrebbero studiare la lingua ungherese. Ho già
dedicato vari post all’argomento. In aggiunta segnalo un sito web nato nel
dicembre 2013, “Magyar Nyelv – Impariamo
insieme l’ungherese”, che offre ben 28 lezioni di ungherese. Non conosco
l’autore, ma ho l’impressione che anche lui, dopo un’estate nell’”incantevole
Budapest” (nel 2012), soffra ora di mal d’Ungheria.
Nessun commento:
Posta un commento