Sono interista ed è una bella sorpresa scoprire che lo
scudetto del 1929/30 fu vinto dalla FC Internazionale (allora si chiamava Ambrosiana) grazie a un ungherese. Si
trattava di Weisz Árpád (1896-1944),
ancor oggi l’allenatore più giovane che abbia mai vinto un campionato e forse
il miglior allenatore della sua epoca.
Lo rivela una targa posta nello stadio di San Siro a Milano.
Tale ricordo ungherese è stato collocato nel foyer della tribuna rossa del
“Meazza” il 27 gennaio 2012, giorno della
memoria, in quanto Weisz era di origine ebraica e morì nel ’44 nel campo di
concentramento nazista di Auschwitz. Weisz – che era stato anche un’ottima ala
sinistra nell’Olimpica ungherese del ’24 (anno in cui si trasferì al Padova)
– lasciò l’Italia nel gennaio del ‘39 in
seguito alle leggi razziali, ma poi fu arrestato dai nazisti in Olanda e
deportato nei campi di sterminio insieme alla moglie e ai due figli (uccisi nel
’42).
Weisz fu anche il primo a scrivere, insieme al dirigente Aldo Molinari, un manuale dedicato alle
tecniche di calcio (Il giuoco del calcio,
con prefazione di Vittorio Pozzo). Introdusse lo schema WM (una sorta di 3-4-3)
sui campi di calcio italiani, sperimentò i ritiri (nelle terme) e inaugurò
l’allenamento (in calzoncini) insieme ai giocatori. Iniziò la sua carriera di
allenatore nel ’26 all’Ambrosiana,
dove fece esordire Peppino Meazza, e che portò a vincere il suo terzo scudetto
nel 1930 (anno di istituzione della Serie A a girone unico).
Nel 2007 è stata inaugurata una targa in memoria di Weisz
anche allo stadio Dall’Ara di Bologna, dove vinse tre scudetti vicini (1935/36,
36/37, 38/39). Nello stesso anno Matteo Marani, giornalista sportivo, ha
scritto su di lui un libro, Weisz,
l’allenatore che finì ad Auschwitz (Aliberti editore). Il grande Bologna fu
il suo capolavoro, che divenne “la squadra che tremare il mondo fa”, segnando
un’epoca nell’Italia e nell’Europa calcistica. Tra il ’35 e il ’39, infatti,
oltre a tre campionati italiani, il Bologna vinse la Coppa dell’Esposizione
(sorta di Champions) battendo gli inglesi del Chelsea per 4-1.
Chissà se c’è una targa anche a Torino, dove un altro
ungherese costruì le fortune del grande Torino, che dominò il campionato
italiano tra il ’43 e il ‘49. Si trattava di Egri Erbstein Anton, prima
direttore tecnico e poi allenatore. Introdusse tecniche avanzate di
preparazione degli atleti, come il riscaldamento prepartita, e preconizzò
l’avvento di tecniche che si svilupparono più tardi, come il pressing, il movimento
senza palla e il gioco a tutto campo. Ma il suo segreto vincente fu
l’attenzione allo spogliatoio, la grande capacità di dialogare con i
calciatori. Riuscì a sfuggire alle leggi razziali, ma poi morì con tutti i
giocatori del leggendario Torino nella tragica sciagura di Superga (l’aereo che
li riportava a casa, dopo un’amichevole col Benfica in Portogallo, si schiantò
contro il muraglione della cattedrale).
Però il periodo migliore per i calciatori e i tecnici
ungheresi è considerato il ‘49-‘56, con la “squadra d’oro” (aranycsapat). La nazionale di calcio
ungherese (Magyar labdarúgó-válogatott)
ha lasciato un segno profondo nel mondo del pallone, fino al “calcio totale”
olandese e al tiki-taka spagnolo odierni (v. post del 5 agosto ’13), prima di
declinare dopo gli anni ’70.
Nel ’49 arrivò l’allenatore Sebes Gustáv, che rifondò la
nazionale sul blocco della più forte squadra di Budapest, l’Honvéd, integrata dai giocatori del MTK e di altre formazioni.
Dal ’50 al ’54 l’Ungheria non ebbe sconfitte per ben 32
partite, record eguagliato solo da Brasile e Spagna. Vinse la Coppa
internazionale 1948/1953, le Olimpiadi di Helsinki nel ’52 e arrivò seconda nel
Campionato del mondo del ’54 in Svizzera. Una finale tumultuosa: in testa per
2-0, l’Ungheria fu raggiunta e superata dalla Germania che vinse per 3-2, ma
col sospetto di doping. Addirittura in Ungheria scoppiarono manifestazioni
contro il governo, accusato di aver venduto la partita ai tedeschi (un sospetto
che non trovò fondamento). Nell’ottobre del ’56 l’Honvéd era in tournée internazionale: molti giocatori, allo scoppio
della rivolta ungherese, preferirono l’esilio e non tornare in patria, tra essi
Czibor, Kocsis e Puskás, che – assieme a Di Stefano – fece grande il Real
Madrid. Ma questa è un’altra storia.
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